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La rinascita della fotografia analogica: Josh Kern

La nascita della fotografia digitale, sviluppatasi al suo massimo grado negli anni duemila, sembrava aver del tutto soppiantato l’analogico, e non è complesso capirne i motivi: l’immediatezza dello strumento, la semplicità delle correzioni, la maggiore qualità dell’immagine e la possibilità di visionare subito lo scatto ripetendolo decine di volte per raggiungere il risultato desiderato. Insomma, lo strumento digitale ha permesso ai fotografi un approccio nuovo, di fiducia e onestà tra la macchina e l’autore, il totale dominio dell’uomo sul mezzo. Eppure sono in molti i fotografi che oggi, anche (e forse soprattutto) i giovani emergenti, hanno tirato fuori dagli armadi dei propri nonni le vecchie reflex dello scorso secolo e si sono riavvicinati alla misura di una fotografia fatta di attese, incertezze, delle antiche lotte con gli ISO e di impostazione più radicalmente manuale di otturatore e diaframma. Si tratta di un ritorno a un rapporto più conflittuale con la macchina, meccanico, fatto di gesti, tentativi e belle sorprese o brutti scherzi della pellicola.

L’approccio di questi giovani non è però di gusto puramente nostalgico, ma testimone di un ritorno al passato per guardare al nuovo in quella che si presenta come una diversa consapevolezza con cui ritrarre il mondo. Si parla di ragazzi che nuotano nel mondo digitale dalla nascita ed è interessante vedere come riescano a legarlo alle vecchie modalità attraverso portfolio online e profili instagram interamente dedicati alla fotografia su pellicola.

Dal lato opposto si potrebbe pensare a questo ritorno della pellicola come a un altro dei sintomi della moda che fa capo agli anni ’70 e ’80 ribattezzati sotto il generico nome di “Vintage”, in abiti, oggetti, arredamenti e modalità di ascolto di musica, come testimoniato dal ritorno del vinile: una visione estremamente romanticizzata dei decenni precedenti alla nascita delle generazioni che ora aderiscono a questo trend riutilizzando vecchi abiti e strumenti obsoleti come oggetti di costume; ragazzi che, però, nello stesso momento in cui entrano in un negozio ad acquistare un vinile da 33 giri, si portano in tasca lo smartphone pieno di applicazioni di streaming musicale come Spotify.

Ma se i jeans mom-fit e i 33 giri non sono altro che una manifestazione estetica di un ritorno al passato, usati a volte per darsi toni di sofisticatezza, nella maggior parte dei casi non raggiunti, una macchina analogica non dà garanzia di riuscita artistica se non conoscendo intimamente lo strumento. Ecco in quale senso i nuovi giovani pionieri dell’analogico non si rivelano degli sprovveduti in cerca di attenzioni, ma fotografi che compiono una vera e propria ricerca sull’immagine.
Tra questi giovani emergenti spicca la figura di Josh Kern, studente tedesco che opera a Dortmund, nel Nord-ovest della Germania. La sua fotografia sta perfettamente a metà tra l’analisi introspettiva e il ritratto generazionale. I soggetti di cui si occupa sono i suoi coetanei, amici e compagni, che ritrae nei gesti più quotidiani, dal risveglio al vagabondaggio serale per le vie della città. Le immagini sono caratterizzate da una risoluzione “sporca”, granulosa e forti contrasti chiaroscurali. Non si tratta di soggetti in posa, ma uno spiare la realtà quasi “dal buco della serratura”, senza essere percepiti. La presenza del fotografo è tutta piuttosto dentro al linguaggio tecnico-visuale che Kern utilizza, un linguaggio che parla dei suoi soggetti ma dice anche molto di lui che, raccontando gli altri, racconta sé stesso.

I contrasti volutamente sottolineati, la sottoeposizione che torna come una costante, il buio da cui emergono le figure che occupano lo spazio dell’obiettivo come se lo abitassero, sembrando prendere vita nell’immagine: questi sono gli elementi che spiccano in quello che appare a tutti gli effetti un assetto narrativo, una sorta di diario fotografico, di biografia che diventa autobiografia nella resa totale. L’oscurità che racchiude i soggetti è la stessa in cui la nostra generazione si muove e Kern con essa. I toni sporchi che caratterizzano l’immagine riflettono in qualche modo il mondo in cui essi sono immersi: un sotterraneo tutto emotivo in cui danzano senza sosta riconoscendosi fratelli, in virtù di una vicinanza data da una stessa concezione dell’esistere. In questo senso il ritratto che ne fa gli si addice perfettamente: attraverso la dimensione autodistruttiva dei gesti ritratti e la dolcezza che ribalta l’oscenità di alcuni elementi disturbanti, Kern si fa portatore di un amore per le piccole cose che animano la vita, delle quali, come artista, teorizza l’importanza.

Oltre ad essere molto attivo online sul suo profilo instagram, Kern si è occupato di una raccolta fondi per la pubblicazione di un piccolo libro fotografico che raccoglie i suoi scatti più amati e alcune note di accompagnamento sulla sua poetica e sul suo approccio, che se ad alcuni addetti ai lavori potrebbero risultare piuttosto naif, testimoniano almeno un interesse teorizzato verso tutto ciò che è umano, unendo quindi anche una chiave di lettura che ne spiega il titolo: “Fuck me”, che nella sua potenza estremamente disturbante, invita lo spettatore ad essere viscerale nello sguardo. Si tratta di un progetto che non vuole essere compreso ma sentito, nella stessa maniera viscerale che ha animato l’intero processo di organizzazione.

Se Josh Kern appare dunque come un timido che ha semplicemente trovato il mezzo per esprimersi, e forse è anche così, resta il fatto che dietro il suo approccio si trovi una consapevolezza del mezzo (e artistica) assolutamente inedita per un giovane. Forse è attraverso ragazzi come lui che la fotografia su pellicola tornerà al suo splendore in una nuova interessante veste che non sia puramente estetica.

 

Federica Defendenti

Studio Lettere Moderne con indirizzo di Discipline dello Spettacolo all'Università di Pavia. Sono caporedattrice della rivista "Inchiostro"; redattrice per "Birdmen Magazine"; appassionata di poesia, musica, cinema e arti visive.

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