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“La ragazza del treno”: vince (al box office) ma non convince

“…tanto si sa, i film non sono mai uguali ai libri. Anzi sono peggio…”

“Ecco, tipo, guarda qua, vedi?! Sta scena nel libro era diversa!”

“Sì sì, infatti mi ricordo che la protagonista [SPOILER!] …”

Ha ragione, signora, lei sta parlando con la sua amica ed io non dovrei origliare, ma siamo seduti a tre poltrone di distanza e quindi è inevitabile che io senta, e se per favore non racconta a tutta la sala la prossima scena, gliene saremo grati. Poi, si sa, che continuare a vedere film tratti da libri ed aspettarsi un’aderenza perfetta è un’utopia! E questo film è l’ennesima conferma, è la conferma del fatto che portare tutto ciò che un libro può racchiudere su uno schermo è impresa ardua, infatti qui la sceneggiatrice (Erin Cressida Wilson) si trova tra le mani La ragazza del treno (The girl on the train), romanzo del 2015 scritto dall’autrice inglese Paula Hawkins e divenuto best-seller con oltre tre milioni di copie vendute, ed il compito di rendere i fan del libro entusiasti è ancora più difficile. Così la Wilson devia, omette, taglia e cuce, usa insomma tutti quegli espedienti di adattamento atti a mettere in piedi un film che possa ripetere il successo di un libro.

Quello che esce è un film godibile, un film che tutto sommato si lascia guardare e apprezzare, anche grazie e soprattutto alla bravissima Emily Blunt, nella parte di una Rachel alcolizzata e scrutatrice, sospesa tra vuoti di memoria dovuti all’alcool e psicosi interne, che proietta le sue fantasie al di là del vetro di quel treno, preso ogni giorno per recarsi al suo “non” lavoro. Il percorso del treno è quindi sempre lo stesso, dalla periferia di New York a New York, sulla costa, tra il mare e i tipici tranquilli sobborghi americani (qui l’ambientazione del film si discosta da quella del libro), andata e ritorno, giorno dopo giorno, il treno porta ed incrocia sempre le stesse facce e sempre le stesse vite.

E cosi il finestrino del vetro diventa una forma di intrattenimento, diventa macchina da presa che seleziona scorci e persone, taglia e passa avanti. Ma ne La ragazza del treno niente è casuale e le vite degli altri non sono mosse solo dalla fantasia di una presunta alcoolista, perché Rachel quelle persone le conosceva, le frequentava, prima che tutto nella sua vita precipitasse. Conosceva Megan, giovane, bella, affianco di un uomo che la ama.

Ma solo al di qua del finestrino tutto è possibile, la fantasia si può muovere liberamente, e la realtà è ancora qualcosa di lontano. I fantasmi della protagonista infatti non sono solo buoni, belli e bravi, dato che qualche isolato più giù il treno incrocia la casa del suo ex marito (Justine Theroux) con la sua nuova moglie (e prima amante) Anna. E i rapporti fa i tre non sono propriamente idilliaci, soprattutto perché Rachel ancora non ha superato la rottura.

Tutto però sembra restare fermo in questo equilibrio malato fino a quando la realtà non rompe il finestrino, e squarcia la tela di fantasie e mezze verità creata da Rachel. L’uomo che vede baciarsi con Megan non è più lo stesso, lei lo sta tradendo. Nasce così l’invidia, la rabbia e l’abuso dell’alcool, fino alla pessima decisione di voler scendere alla fermata di Megan. Il problema diventa reale quando la protagonista si sveglia sporca di sangue a casa della sorella, senza riuscire però a ricordare nulla.

Il regista Tate Taylor segue la composizione adottata dall’autrice del libro, con sipari che si aprono sulla vita delle donne protagoniste e con i flashback di Rachel e Megan, ma questi ultimi non sono chiarissimi e lucidissimi, e qualche confusione la creano. È invece bravo nella prima parte del film a sottolineare le psicosi della protagonista e il rapporto pessimo con il suo ex marito e la sua attuale moglie, nascondendo le risposte salienti fino ai minuti finali in cui un ribaltamento inaspettato stravolge la storia. Manca forse un po’ di mordente, e, al di là di Rachel, si entra troppo poco nei personaggi e troppo debolmente. L’uso insistito dei primi piani o degli sguardi in camera è utile ma non rende come dovrebbe, e il film rimane in piedi grazie alle tre donne legate da una storia imprevedibile ed immerse in questo paesaggio grigio ed umido, che con i suoi colori freddi non contribuisce ad accendere il tutto, ma nemmeno aiuta a creare suspense tipica di un thriller. E così rimane tutto in sordina, ci si aspetta il botto ma non arriva, nemmeno nelle sequenze “del tunnel” (quando guarderete, capirete), così tanto attese per tutto il film, e rese invece con espedienti registici abbastanza normali e piatti, che a livello di emozioni nulla aggiungono, non inquietano né disturbano ma solamente chiariscono. E questo un po’ delude e spiace, perché le potenzialità soprattutto per quella scena erano molte (la protagonista è in quel momento ubriaca), e forse si poteva fare di più.

Nel complesso il film risulta quindi spento, grigio, e troppo poco disturbante. Non fa quel salto di qualità che ci si aspetta, ma questo non è certo colpa della storia… e forse nemmeno della continua insistenza a portare bei libri sullo schermo. Forse…

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