Letteratura

“La luna e i falò”, Cesare Pavese: un romanzo definitivo

L’ultimo romanzo di Cesare Pavese, il suo capolavoro, è composto nel 1949 e viene pubblicato da Einaudi nel 1950. Si tratta di una sorta di compendio del suo percorso letterario. Riprende infatti temi e ambientazioni di romanzi precedenti dando loro una conclusione tragica e definitiva.

Molteplici i contrasti, continuo l’alternarsi e il contrapporsi di giovinezza e maturità, di città e campagna, di passato e presente, di fuga e di ritorno, in tutto il percorso letterario dell’autore.

Anguilla, il protagonista del libro, orfano adottato da una famiglia di contadini, passa la sua giovinezza sulle colline delle Langhe in un mondo rurale legato al ciclico ripetersi degli avvenimenti in modo sostanzialmente inalterato. Poi parte, emigra in America, riesce a far fortuna, cambia e, dopo molto tempo, torna. Ritorna al suo paese alla ricerca della sua infanzia, si confronta con Nuto, suo amico a lui contrapposto in quanto mai partito da quel luogo, e nasce la consapevolezza del tempo che passa e di una felicità perduta definitivamente. La guerra. Il Valino che, per disperazione, uccide la famiglia, dà fuoco alla cascina, si impicca. La Santina, diventata spia dei fascisti e poi tornata, giustiziata dai partigiani. Vicende individuali in una narrazione storica che si fa simbolo di una condizione di dolore universale, il conflitto, la lotta partigiana e poi la ricerca di origini, di identità, nelle campagne, luoghi di origine del protagonista, dell’autore, di un’umanità mitica e lontana.

Contrasto e sovrapporsi di realismo e simbolismo. Il romanzo fa emergere dalla narrazione dei fatti una realtà sottostante ad essi, profonda e drammatica, non soltanto autobiografica ma anche, e forse soprattutto, riguardante la condizione umana nel suo complesso.

Saltuari momenti di lirismo nell’evocazione del passato si contrappongono a uno stile narrativo perlopiù scabro ed essenziale. Il romanzo si innesta su un ritmo cadenzato e procede come per blocchi: i trentadue capitoli si giustappongono l’un l’altro senza raccordi, quasi autonomi, solo legati da flashback ricorrenti, da un passato che continua a tornare ma che eppure è impossibile recuperare, in una ciclicità paradossale del tempo in cui “tutto è cambiato, eppure uguale”.

La luna è sempre la stessa, legata alla fertilità della terra, al ripetersi delle attività agresti e della vita uguale a se stessa, simbolo che richiama il rapporto atavico e irrazionale delle comunità rurali con la natura. Ma questa iterazione, di nomi, di persone, di luoghi, il tornare ossessivo delle cose e dei ricordi, rimarca maggiormente il fatto che tutto sia cambiato e irrecuperabile. Lontani dai vagheggiamenti proustiani, i falò delle feste popolari, vivi nelle memorie giovanili di Anguilla, son fuoco di morte ormai. Simboli potenzialmente positivi assumono progressivamente nel romanzo valori profondamente negativi.

Le colline portano i segni del tempo e della storia, le cicatrici della guerra. Il ritorno a un’infanzia felice, alla terra natia, alle origini, di Anguilla-Pavese e dell’umanità tutta è negato dall’improvvisa constatazione che vivere è doloroso e che “crescere vuol dire andarsene, invecchiare, vedere morire”. Soltanto pochi mesi dopo la pubblicazione del romanzo Pavese si toglierà la vita. La morte, “il vizio assurdo”, sopraggiunge all’improvviso, irrompe come implacabile certezza del destino umano e il rogo sul quale il cadavere di Santina è stato bruciato ha lasciato un segno, “come il letto di un falò”.

Fonti critiche:

Introduzione al romanzo, Gian Luigi Beccaria, Torino, 2000;

Il canone letterario, Hermann Grosser, Principato, Torino, 2011.

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