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La grande truffa

La grande scommessa (The big short) è un film diretto da Adam McKay, basato sul libro di Michael Lewis (The big short: inside the Doomsday machine). Un cast d’eccezione per una pellicola candidata a cinque Premi Oscar, tra cui miglior film; premiata dall’Accademy per la miglior sceneggiatura non originale.

Tra gli interpreti troviamo Christian Bale, Steve Carrel, Ryan Gosling e Brad Pitt, e sicuramente grazie a loro il film risulta molto godibile, seppur la tematica di interesse sia complessa. Da un punto di vista decisamente obiettivo, forse, l’interpretazione migliore, per ciò che ci si poteva aspettare da un attore che ha fatto della comicità la sua carriera, va attribuita a Steve Carell.

Il film è ambientato nella Wall Street ante 2007, prima dell’apocalisse finanziaria che ha messo in ginocchio l’economia occidentale. Michael Burry (personaggio reale, tutt’ora in attività), interpretato dal Premio Oscar Christian Bale, gestore di un fondo speculativo del valore di un miliardo di dollari, teorizzò in anticipo di un anno quella che sarebbe stata la crisi finanziaria del secolo: il più distruttivo terremoto finanziario, sociale ed economico che si sia mai verificato, almeno dalla Seconda guerra mondiale. Il vocabolo “crisi” è entrato ormai da 8 anni nella bocca di ogni individuo che vive nell’emisfero occidentale, poiché tale disastro si è manifestato prima negli USA e poi in Europa.

Il film spiega egregiamente quali furono le dinamiche che portarono ad un tale sconvolgimento, e la storia è incentrata su quei pochi individui che per primi capirono come spudoratamente arricchirsi grazie a questa situazione. Gli anni ’90 e soprattutto gli anni 2000 sono stati e sono anni di attività sempre più fraudolente, ad opera di soggetti che ora hanno a disposizione somme talmente ingenti di danaro da essere in grado di gestire dinamiche finanziare di paesi interi, a loro piacimento. Senza alcuna remora, colossi finanziari come J.P. Morgan, Deutsche Bank, Morgan Stanley, ecc., attraverso agenzie di rating come Moody’s o Standard and Poors (solo per citare le più importanti), hanno speculato riducendo il cittadino medio a cittadino povero: il povero è sempre più povero, e il cittadino “borghese” medio è diventato povero. Ciò è stato reso possibile dall’erogazione di milioni di crediti definiti “subprime”, concedendo liquidità a soggetti che non possedevano i requisiti necessari per accedere ad un finanziamento minimo; figuriamoci più finanziamenti del valore di centinaia di migliaia di dollari per soggetto. Il film spiega molto bene come e quanto ciò possa essere stato redditizio, poiché a prima vista, per un non esperto, l’equazione credito a “poveri” che non pagheranno, concesso dalle stesse banche a cui si imputa la disfatta non sembra spiegabile, e infatti fino a qualche anno fa non sarebbe stato possibile. All’inizio del 2000 però alcuni diavoli hanno inventato un escamotage geniale per la speculazione finanziaria: il mattone storicamente è quasi come l’oro, ovvero un investimento, una fonte di reddito “sicura e noiosa” (cito letteralmente), e difatti così fu, fino a quando si inventarono che i mutui, attraverso una complessa operazione matematica, potevano essere scissi in diverse parti, chiamate “azioni”. Così facendo il mutuo risultava non più un’unità singola, bensì una serie di azioni che, raggruppate e vendute nel mercato del rischio, perdevano quella forma reale, assumendo un valore del tutto virtuale (dematerializzazione dei titoli). Fiutata quindi la portata di questa invenzione, le banche furono invogliate a concedere il più possibile prestiti subprime, così che, una volta avvenuta la cartolarizzazione (termine tecnico-giuridico che definisce il procedimento), potessero offrire all’investitore pacchetti di azioni che, unite ad altre azioni di altri mutui frammentati, formavano grandi pacchetti “di merda di cane unita a merda di gatto” (cito testualmente). Come se ciò non bastasse, sempre gli stessi istituti finanziari, in accordo con grandi gruppi assicurativi – guarda caso poco prima della crisi è stata permessa per la prima volta in 500 anni di attività bancaria l’ingerenza delle attività assicurative e industriali – iniziarono a creare accordi miliardari con i quali le stesse banche che avevano concesso credito scommettevano sull’insolvenza di quei finanziamenti (nel film tutto ciò è “spiegato” attraverso escamotage artistici di montaggio, come Selena Gomez che utilizzando la metafora del Black Jack ci spiega la situazione). In sostanza loro concedevano i mutui, poi li cartolarizzavano, li vendevano nel mercato del rischio (con seducenti certificazioni fasulle delle agenzie di rating) e creavano accordi che, in caso di insolvenza, gli avrebbero permesso di percepire premi assicurativi enormi. La base di un contratto assicurativo è il rischio, se esso non v’è non vi può essere contratto assicurativo: è in sostanza un gioco d’azzardo dove il piatto era di decine di miliardi di dollari.

Il fatto che emerge chiaro dal film è che questa crisi non è stata frutto semplicemente di stupidità e disonestà, poiché le scommesse sull’insolvenza non ammontavano ad un rapporto di uno a uno, bensì il rapporto era di uno a venti: se le azioni avevano un valore di un miliardo (azioni “merda di cane mista a merda di gatto”), sopra di quello, si creavano swap “sintetici” di svariate decine di miliardi; e, visto che tale liquidità è per la maggior parte disponibile solo ai grandi gruppi bancari, è gioco forza che un qualunque alfabeta sia in grado di capire che queste dinamiche erano ben comprese già prima dell’emissione del primo credito subprime. È stato tutto magistralmente orchestrato dal principio, con l’intento di giungere alla situazione in cui ci troviamo oggi, e il regista non ha paura di gridarlo. La fine è emblematica, poiché paventa la giusta reazione ai fatti che nel 2008 hanno portato alla disfatta del capitalismo, ovvero il giudizio dei responsabili (o meglio, di alcuni di essi) con annessi arresti, la riorganizzazione degli istituti di credito e dei mercati finanziari; ma ciò che poi è realmente avvenuto è la solita storia della civiltà umana: colpa agli immigrati, colpa ai poveri, chiudiamo le frontiere, Donald Trump, Hilary Clinton. La nota finale del regista rende il tutto ancor più triste, poiché persino per chi ha speculato sulla crisi vi sono stati rimorsi di coscienza, ma, seppur a malincuore, hanno “dovuto” incassare il frutto dei loro sforzi.

È un film che non lascia spazio alla speranza, alla giustizia e alla rinascita; è un film che prende a riferimento i fatti, li elabora per spiegarli alla gente comune, e conclude assumendo come dato di fatto che non si tratta di trovare i responsabili, punirli e far sì che non succeda più, bensì si tratta di trovarsi tra quei fortunati che comprendono l’imminente scoppio di un’ennesima bolla, così da riuscire ad approfittare, a speculare e a diventar ricchi sulle spalle di milioni di persone che perderanno la casa, il lavoro, la famiglia e la vita. È necessario tener presente che, con l’aumento di un solo punto percentuale all’anno della disoccupazione, negli Stati Uniti ci sono stati 40mila nuovi morti: dal 2007 al 2016 il tasso di disoccupazione degli USA è aumentato del 25%, a voi i conti.

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