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“La grande bellezza”: una ricerca infinita

di Giada Cipollone

A distanza di mesi dall’uscita nelle sale, La grande bellezza continua a far parlar di sé. E solo questo sarebbe un buon motivo per decretare il successo di un film, nell’epoca il cui la fruizione cinematografica è fine a se stessa, votata a cinque minuti di risata o alle dinamiche attrattive degli effetti speciali.

In La grande bellezza non c’è nulla di questo. Per due ore e venti la macchina di presa si muove sapientemente nei diversi registri della società romana, stringendo il primo piano sul protagonista Jep Gambardella, giornalista compiacente e allo stesso tempo disilluso rispetto alla dolce vita dell’oggi, realizzazione concreta del tentativo di riempire un personaggio del vuoto del contemporaneo. Le trame del fraseggio narrativo sono spezzate dalle vedute silenziose di Roma, dea decaduta, mito della bellezza che sopravvive a se stessa e vive nel suo passato, filtrato attraverso gli scorci sul Colosseo che si intravedono dal balcone rumoroso di una delle feste mondane in cui Jep indossa la maschera e recita la parte del protagonista.

 

I virtuosi movimenti di macchina e il montaggio solenne rallentano i movimenti dei personaggi, fino a straniarci, fino ad alienarci, fino a renderci uno di loro. Non si tratta di accompagnarli nel percorso solo tramite la visione, ma di partecipare a questa ricerca infinita di una grande bellezza, che Jep sembra ritrovare solo nel ricordo trasparente di un passato che solo nell’illusione si ricuce al presente, che Roma ci mostra nello sguardo di chi ancora sa fermarsi a guardare le meraviglie della sua storia.

Quella grande bellezza che a noi forse sembra impossibile ritrovare nel presente.

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