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La Fabbrica dei Tedeschi – Un anno dopo

di Nicolò Carboni

Un anno e qualche giorno, tanto è passato da quella maledetta notte di Torino in cui sette operai morirono, travolti da un’onda di fuoco ed olio bollente, nello stabilimento della ThyssenKrupp. Su questa tragedia s’è detto e scritto di tutto, i quotidiani si sono riempiti di editoriali – lenzuolo reportages ed inchieste. Vespa, Mentana ed i loro epigoni hanno vomitato fiumi di banalità sulla riscoperta della classe operaia, sulla sicurezza, sul “nuovo” sottoproletariato urbano. Oggi, pare sia passato un secolo. Nonostante i morti sul lavoro continuino ad aumentare (più di 1000 solo nel 2008) la classe politica e l’intellighenzia si sono chiuse in un silenzio, più d’una volta scopertosi in un malcelato fastidio, quasi un’insofferenza verso una dimensione umana che credevamo ormai archiviata insieme ai tanti fantasmi del ‘900. Ed invece gli operai sono ancora qui, stavolta però senza rete di sicurezza, privi di quei punti di riferimento (politici, istituzionali e sindacali) che per decenni li avevano indirizzati e rassicurati.

Nel generale silenzio delle istituzioni, che non si sono degnate neppure di inviare un loro rappresentate alla cerimonia organizzata per l’Anniversario di quella tragica notte, va applaudita la scelta di La7 che, in una serata speciale condotta da Gad Lerner ha trasmesso, in esclusiva, il documentario La fabbrica dei Tedeschi, firmato da Mimmo Calopresti (uno dei più geniali registi del nostro cinema, già autore fra gli altri de L’abbuffata e Volevo solo vivere) e presentato quest’anno a Venezia all’interno della rassegna dedicata ai morti sul lavoro.Lavorando sui volti e sulle storie, il film entra nel quotidiano di quei sette operai, scoprendone i piccoli e grandi sogni, i rapporti interpersonali, le vite. Un po’ docu – fiction ed un po’ cinema verità, La fabbrica dei Tedeschi unisce la forza investigativa dei grandi documentari, alla poesia dell’opera di finzione, mettendo di fianco attori consumati come Silvio Orlando, Valeria Golino o Monica Guerritore, ai parenti delle vittime, alle mogli, ai figli ed alle madri. Tutti insieme, in un unico grande affresco che entra dentro alla nostra Italia del XXI secolo e ne estrae un ritratto tutt’altro che lusinghiero. Gli operai della Thyssen lavoravano dalle 12 alle 18 ore al giorno, in tre turni a ciclo continuo, chiusi dentro enormi capannoni bui e pieni di fumo proprio come i loro padri, ed i padri dei loro padri, in un sistema che non permette alcun riscatto sociale. Tuttavia Calopresti non si lascia tentare da conclusioni facili ed evita il gioco banale di sparare sul capitalismo selvaggio, sulle multinazionali e sui dirigenti. Mettendo in fila una serie di interviste ad operai e sindacalisti, infatti, il regista mostra senza mezzi termini il paradosso di una classe sociale prigioniera di se stessa, prima ancora che dei suoi sfruttatori; i giovani sono sempre più individualisti, disposti ad accettare qualsiasi compromesso per un salario un po’ più alto, e la vecchia guardia paga lo scotto di un ritorno fin troppo bruciante al Fordismo più dissennato, dove la dittatura dell’orologio e dello straordinario pesa più di qualsiasi altra imposizione. “Tutti i giorni pensiamo ad una vita diversa. La bramiamo una vita diversa. Però poi inizia il turno”, dice alle telecamere un operaio poco più che ventenne proprio davanti ai cancelli dell’acciaieria. Ed è qui, in questo ambiente squallido, fatto di asfalto, rumori e caseggiati di cemento armato, che Calopresti sceglie di girare la maggior parte delle interviste, recuperando le atmosfere del grande cinema “di fabbrica” italiano che furono già del miglior Monicelli. Ma in questo film non c’è spazio per il romanticismo, forse un po’ ingenuo, che animava quelle opere. Ne la Fabbrica dei Tedeschi ci si scontra con la realtà di un mondo vicinissimo a noi ma così terribilmente lontano da apparire quasi irreale, il retaggio di un’epoca passata che, come una maledizione, torna a ricordarci l’eterna necessità di difendere le conquiste sociali che abbiamo ottenuto.Certo, nell’Italia ottimista che piace al Cavaliere non c’è posto per film che costringono a guardare sotto al tappeto di buonismo ed ipocrisia che ammanta i salotti buoni delle televisioni, e probabilmente la coraggiosa decisione di La7 rimarrà un caso isolato. Tuttavia già il fatto che opere come questa (ed il contiguo ThyssenKrupp Blues di Pietro Balla, sempre in Mostra a Venezia) vengano viste e commentate in prima serata è un ottimo segno, quantomeno per il cinema italiano, che dopo anni di apatia, forse sta cominciando a risvegliare la sua coscienza sociale ed artistica più profonda.

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