Recensioni

“La chiave dello zucchero”: memorie di guerra

“Sono storie universali ma che hanno un legame forte anche con la Sardegna. Perché la Sardegna è stata coinvolta, più di quanto appaia, più di quanto si sappia, in quel grande disastro, con tante vittime, con tante devastazioni, con le deportazioni sui treni piombati, il genocidio degli ebrei con i campi di concentramento. E con stragi avvenute in Sardegna e che la Sardegna dimentica. E oggi più di ieri in Sardegna e nel mondo è necessario non dimenticare“.

Queste le parole di Giacomo Mameli nell’introduzione al suo nuovo e ultimo libro “La chiave dello zucchero” edito da Il Maestrale.

Mameli, giornalista e scrittore foghesino (Perdasdefogu), raccoglie i racconti orali di chi è stato protagonista nei teatri di guerra, e li interseca con atti ufficiali e documenti storiografici. Dall’Egitto di El Alamein, alla Tunisia, al Kenya, alle Alpi, alla Toscana: testimonianze che sanno di racconti intorno al fuoco e che non si trovano nei libri di storia, perché si sa che “la storia è dei grandi, non dei piccoli”, la storia siamo noi.

Giacomo Mameli conserva la naturalezza del racconto orale per mettere in luce la crudezza della guerra e la sua inutilità. Il lettore è lì con i protagonisti, si sente coinvolto, si ritrova ad essere parte di tragedie che non ha mai vissuto e che si spera non debba vivere mai.

Il primo testimone è Egidio Lai, ha combattuto nella battaglia di El Alamein e racconta: “Era stato Angelino Lai soldato di Ballao a dirmi: Vai a prendere i morti così ci proteggiamo, ci proteggiamo con un muro, costruiamo una barriera di morti. Morti ne vedevo tanti davanti a me, sangue nella sabbia, e gambe, e braccia, e bossoli e otturatori, fiamme, mitragliatrici, razzi e mortai, granate proiettili, perforanti. Una volta sono svenuto quando ho trovato una testa in mezzo alla sabbia, anche l’occhio del morto ho visto. Sono caduto svenuto”.

Ciò che Egidio Lai sottolinea nella sua testimonianza è l’ignoranza che faceva da padrona in quegli anni. I ragazzi come lui venivano mandati in una battaglia di cui non sapevano nulla, combattevano un nemico che non conoscevano, ubbidivano agli ordini e basta. Il contributo che hanno dato alla Storia lo hanno scoperto tardi, una consapevolezza raggiunta a guerra finita, leggendo i libri degli storici.

E anche Francesco Cossu, artificiere nella guerra delle mine in Tunisia, afferma: “Leggo e rileggo, ma se mi sveglio di soprassalto, e mi capita spesso, sogno bombe e ponti, sogno mine e miccia e detonatori, prendo soprattutto le pagine del libro del mio generale Giovanni Messe. Forse lo conosco a memoria, lui aveva scritto “La mia armata in Tunisia” ma era mia anche la sua armata. Tra quelli c’ero anche io. Lui generale decorato io soldato, milite ignoto. Armato di miccia per la guerra delle mine. Ma non sono stato un eroe. Anzi, scrivetelo: un fesso che ubbidiva. Ubbidiva senza sapere, senza pensare. Ubbidiva e basta, che fesso“.

Iolando Fosci invece ripercorre la strage del suo paese nel Medio Campidano, Gonnosfanadiga “che mai nulla aveva fatto a nessuno”. Il 17 febbraio del 1943 sbucano dalle montagne di Villacidro aeroplani che si lanciano in picchiata sul paese, lasciando una scia di morte: “Il cielo era pulito e c’era silenzio nelle campagne. […] Anche un bambino era sotto lo stesso cielo mio, sente e guarda questi mostri d’acciaio, ma solo per pochi secondi li vede. Lo trovo morto quel ragazzino che si divertiva come fanno i bambini col suo pallone. Un paese di sorrisi in un battibaleno era diventato un paese di pianti. Urlano in molti, era come se urlassero tutti , di casa in casa, di bottega in bottega, di orto in orto.” Iolando Fosci, chiamato alle armi in Toscana, si finse sordo per 34 giorni, molto interessante è il confronto con il sordo di Gadda nell’articolo di Angela Guiso per la rivista “Gli Asini” ( https://gliasinirivista.org/il-sordo-di-guerra/ ).

Con il “sacrista buono” Vittorio Vargiu le testimonianze portano il lettore nel vivo della lotta partigiana. Molti sardi combatterono per la Liberazione e pagarono con la loro vita. Le loro storie ci vengono raccontate da altri. Il partigiano Ulisse morì nella strage di Vamala, Adriano Vargiu, membro della piccola banda di Ariano, trucidato dai tedeschi e dai fascisti in Toscana, e poi il partigiano Alfredo Gallistru narrato dalla preziosa memoria di Giuseppe Fiori.

Come nota Mameli, nessuno ricorda il loro sacrificio e questo è un patrimonio perduto, una giustizia mancata. Sardi, militi ignoti, cui nessuno ha intitolato una via e la cui memoria sarebbe andata persa. Una Spoon River della memoria quella che ci racconta Giacomo Mameli per non dimenticare: l’urgenza di trascrivere la loro testimonianza di raccontare la nostra storia.

Nelle pagine dedicate ad Egidio Furcas, prigioniero degli inglesi in Kenya, lo scrittore ricorda l’intervista pubblicata ne “La Nuova Sardegna” nel 2003. Mameli fa una riflessione molto attuale: “Oggi ci sono i ricorsi della storia, ancora più ingiustificati di quella di ieri, perché si persevera negli errori, come se quelle pagine non abbiano impartito lezioni perenni per l’umanità”, coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo. La poetessa Maria Lai aveva incontrato Francesco Cossu e, colpita dai suoi racconti, aveva scritto una poesia che si collega alla riflessione

la storia la storia la storia

segnava nel tempo

lo zero

[…]

la terra la terra la terra

duemila

anni di guerra

Chiude il libro la testimonianza di Leokadia Sas, sarda d’adozione, che rievoca i suoi ricordi di bambina durante l’invasione tedesca della Polonia, e dove trova posto il raro ricordo del giovane professore Karol Wojtyla.

Che questi racconti siano da monito per evitare di ripetere le tragedie della storia, e come dice Giacomo Mameli, ricordiamo il passato “Sperando di non doverne raccontare altre di guerre, in un’Europa nuovamente lacerata da nazionalismi esasperati e senza senso, in un mondo che non conosce oasi di pace“.

“La chiave dello zucchero” un libro della memoria per non perdere la memoria, per raccontare storie di altri tempi, per preservare la giovinezza e la responsabilità di ricordi vividi.

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