Jessica Jones 2: rabbia, alcool e mal di vivere
Donna forte non vuol dire niente. È un’espressione a buon mercato, un escamotage pieno di buone intenzioni ma che sacrifica troppo della amabile e necessaria complessità femminile. Jessica Jones non è una donna forte, non è una donna con le palle, non è una donna da “storie delle buona notte per ragazze ribelli”. È invece una donna fragile, sconfitta, umiliata, recidiva, indecisa, violenta e impulsiva. Un merito quindi su tutti va riconosciuto allo show di Melissa Rosenberg: quello di non puntare sull’immagine della donna emancipata della Hollywood più recente bensì di mostrare la femminilità più stonata e imperfetta. Tuttavia, a differenza di una prima stagione di altissimo livello, contraddistinta da comprimari d’eccezione e una trama solida e ben scritta, questa seconda stagione punta tutto, ma proprio tutto, sullo spessore dei propri personaggi che sono qui approfonditi parecchio a scapito della storia che è infatti debole e inconsistente. In sostanza Jessica Jones 2 è l’esatto opposto della serie su Pugno d’Acciaio. Se Iron Fist, pur avendo una trama interessante, peccava di personaggi inutili e noiosi, la seconda stagione di Jessica Jones al contrario può vantare i personaggi meglio scritti di sempre a fronte di una trama pressoché inesistente.
Cominciamo con una nota dolente di non poco conto: chi segue l’Universo Cinematografico Marvel in tutte le sue diramazioni sa bene che avevamo visto la nostra protagonista l’ultima volta in Defenders e sebbene lei non avesse risentito particolarmente delle conseguenze della lotta contro la Mano (non quanto Daredevil almeno) ci saremmo aspettati quantomeno un fugace riferimento agli eventi ivi narrati, sia solo per dare un minimo di sensazione di continuità; e invece niente. Passi questa scelta narrativa, la serie si apre subito con una Jessica alle prese con ciò che sa fare meglio: scattare foto di gente che fa sesso e ricavarci soldi da essi. La sua è una strana normalità come del resto altrettanto bizzarra è la quotidianità dei comprimari. Trish “Patsy” Walker (una Rachael Taylor di grande spessore) è incastrata in una storia d’amore troppo bella per durare e soprattutto nella seconda metà di stagione il suo disagio deflagrerà in tutta la sua tragica portata. Curiosamente il suo è forse il personaggio meglio scritto e approfondito e personalmente non vedo l’ora di rivederla nel MCU, magari con la calzamaglia arancione di Hellcat. Malcolm, un bravo e sorprendente Eka Darville, è quasi ormai totalmente fuori dal tunnel della tossicodipendenza ma davanti a lui si parano sfide ben più grandi e insidiose. Jeri Hogarth è ancora una volta una magnetica Carrie-Anne Moss e la sua presenza su schermo, sebbene quasi mai funzionale alle vicende principali, è sempre un piacere. Discorso diverso per gli antagonisti in ordine di importanza Janet McTeer, in un ruolo che per dovere di recensore non posso rivelarvi ma che è indubbiamente di grande impatto e Callum Keith Rennie nei panni del Dr. Karl Malus (un cattivo di Spider-Man di serie Z nei fumetti e qui ben poco cattivo). Ma i veri nemici di Jessica Jones non sono questi bensì altri e più insidiosi ai quali nemmeno lei e la Rosenberg riusciranno a far fronte: la noia e la stasi. Nonostante l’alta qualità dei personaggi sul piatto e il talento dei relativi attori nel mettere in scena delle maschere convincenti e profonde, la storia non entra mai nel vivo ma si perde in sotto trame inutili e confusionarie e talvolta decisamente fini a sé stesse. Difficile capire dove le autrici volessero andare a parare ma quello che è certo è che troppo spesso la storia finisce per essere soffocata anche dai troppi temi che la serie si prefigge di affrontare; temi dei quali nessuno o forse solo uno (ma anche qui non posso rivelarvi molto) è mai veramente legato alle vicende della protagonista.
Jessica Jones in questa seconda stagione in solitaria è più che altro una fiera del neo-esistenzialismo, dove il male di vivere si scontra troppo spesso con una protagonista determinata solo a bere e a fare a cazzotti. Krysten Ritter si dimostra come sempre talentuosissima e perfettamente a suo agio nei panni del detective privato ma non assistere ad alcun tipo di evoluzione o cambiamento del personaggio dopo 13 episodi lascia un notevole amaro in bocca, ancora di più se si considera che la protagonista si scontra con i demoni del suo passato senza venire a capo di molto, almeno a livello personale. La sensazione che si ha è quella di una stagione ancora più distanziata dall’universo Marvel/Netflix in favore di un’autonomia narrativa maggiore. Tutto sommato niente di male se non fosse che questa autonomia sia stata male sfruttata.