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James Joyce: uno sguardo da outsider

“Prova a essere come uno di noi” disse Davin “Hai il cuore di un irlandese ma il tuo orgoglio è troppo forte. […] Quando l’anima di un uomo nasce in questo paese, le vengono lanciate delle reti per impedire che prenda il volo. Tu mi parli di nazionalità, di lingua e di religione, e io cercherò di scansare queste reti.”

(Stephen Dedalus, da Il ritratto dell’artista da giovane, James Joyce)

In un’epoca sempre più globalizzata e multiculturale è facile capire a cosa Dedalus si stia riferendo quando parla di reti da schivare.  Stephen Dedalus conosceva lo stato di oppressione in cui l’Irlanda (allora britannica) si trovava da più di un secolo, ma quando risponde al suo coetaneo Davin su una questione che riguarda l’orgoglio di sé e il rapporto che vive con il proprio paese, ci sembra che James Joyce gli metta in bocca parole riconducibili a un’epoca tutt’altro che lontana.

Joyce non è tra i più apprezzati scrittori in lingua inglese del suo tempo (soprattutto se consideriamo che i suoi contemporanei sono Scott Fitzgerald, Virginia Woolf, T.S Eliot, Hemingway e un certo A.A Milne che avrebbe scritto la storia di un orso giallo – Winnie the Pooh – da cui sarebbe nato uno dei film d’animazione più famosi del secolo), scrive in inglese ma non è inglese né si può dire al contempo che in vita sia stato un uomo “tipicamente irlandese”. Nel 1904 a ventidue anni decide di esiliarsi dall’Irlanda con la sua compagna Nora Barnacle. Riesce a fuggire dall’opprimente ambiente di Dublino, lontano da quelle reti sociali, vivendo tra Trieste, Zurigo e Parigi per il resto della sua vita. Ma i suoi scritti non hanno mai lasciato l’atmosfera della città capitale. Joyce ha scelto la vita da outsider per scattare una fotografia dall’esterno della Dublino che sembrava essere rimasta intrappolata da decenni nella conformità del nazionalismo.

A distanza di circa un secolo da quando scriveva, le sue opere sono ancora attuali, nonché ottime per parlare di temi sociali. I simboli, i personaggi e i riferimenti politici e letterari, ricorrenti in tutte le sue opere, fanno sì che i suoi punti focali rimangano vivi nelle menti dei lettori anche a distanza di circa cento anni. Uno dei punti nodali nelle sue opere è la ricerca della bellezza.

 Il ritratto dell’artista da giovane (1915) è una delle chiavi di lettura più ricche che Joyce ci fornisce della propria vita. Non è propriamente un’autobiografia, nonostante Joyce vorrebbe richiamare l’attenzione del lettore a particolari eventi che sembrano riecheggiare in quelli del protagonista Stephen Dedalus. Joyce sceglie di mettere in sequenza le impressioni più forti che erano scaturite dalla sua immaginazione e porle a confronto con i valori delle istituzioni che più potevano pesare sulla coscienza di un adolescente in Irlanda: la patria e l’antica cultura irlandese, la famiglia, il cattolicesimo. Voleva ritrarre, come suggerisce letteralmente il titolo, la visione di un individuo che non poteva conformarsi a un gruppo.

James-Joyce-Dublino
Dublin, 1964

Che l’autore si sentisse distaccato da Stephen Dedalus o che ne condividesse interamente la visione, forse, non lo sapremo mai per certo. Ma Stephen diventa uno dei portavoce più efficaci della poetica dell’autore. Per quanto i suoi passaggi a momenti possano risultare ostici, la sua scrittura richiama un’attenzione unica che invita il lettore a interpretarla in molteplici modi. Quei segni premonitori (le epifanie) dei suoi racconti brevi e i suoi romanzi sono facilmente sovrapponibili al caso umano odierno, cangiante ma ricco di potenziale: agli artisti è data la capacità di prendere in mano ciò che il destino concede loro. La sensazione di non appartenere alla città in cui si nasce o di non identificarsi negli ideali dei predecessori è solo il segno che il culture shock del nuovo secolo non viene dall’esterno ma da dentro di noi e delle nostre terre natie. L’estraniarsi dunque, nel mondo contemporaneo, è una questione molto presente. E chi la vive? Coloro tra di noi che sentono di dover trovare legittimazione nell’appartenenza a una scuola di pensiero, una visione culturale o una città in cui vivono. Altrimenti non c’è alternativa: si deve cambiare. Questo fa delle cronache di Stephen l’artefice della propria vita.


Consapevole di essere nato in un paese cui fu imposto di parlare una lingua straniera, Joyce apprende che nella letteratura bisogna avere una mente sempre più internazionale. Fornisce a un pubblico più ampio una lente d’ingrandimento e inscena una rilettura della storia nazionale. È uno dei primi autori irlandesi a delineare un sentimento di appartenenza secondo dei paradigmi culturali diversi. Il ritratto che Joyce dipinge è un’opera che propone un’immagine tutta intera, con le sue luci e le sue zone d’ombra, pregi e difetti. È un lavoro a cui si dedica «in a sense all my life» («in un certo senso tutta la mia vita» come cita David E. Jones in Approaches to Dubliners, apparso per James Joyce Quarterly nel 1978). Un’opera che gli permette di analizzare dall’esterno un personaggio che è proiezione della sua vena artistica nell’atmosfera di una città in cui aveva vissuto ma da cui si era allontanato. Questo approccio ci suggerisce che l’Irlanda di Joyce, immobile e fissa nella propria paralisi, non è la stessa che ci è permesso di conoscere viaggiando, e Joyce ce ne dona un’immagine come una cartolina, perfettamente fotografata con lo sguardo di un attento e critico osservatore.

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