IV Classificato – “Il cucchiaino” di Ilaria Frascarolo
di Ilaria Frascarolo
Quando si scappa vuol dire che si ha paura.
Si sceglie di arrivare in un altro posto, si ricomincia.
Ero dentro da diec’anni. Ogni sera, chiusa la porta sul volto, sfioravo le sbarre. Sembravano carteggiarsi incontrando i miei palmi rugosi che le stringevano e accarezzavano.
E ogni giorno pensavo a chi era fuori, a chi poteva scegliere dove andare, decidere di fuggire. Io non potevo più.
Non mi restavano che il silenzio, il rumore di tubature ingolfate, lo sputo di natura che mi era concesso dalle grondaie che, dopo una pioggia insistente, regalavano al terreno le ultime gocce, e alle mie mura l’ultimo odore di fuga.
E nemmeno quell’atmosfera afona restava intatta, rotta dalla voce roca di Edipo, mio compagno di cella. Per lui non c’era vita senza libri. Quelli, almeno, non glieli avevano tolti. Mi chiamava “l’esule volante”, tante volte avevo tentato la fuga.
-Ehi- mi aveva detto avvicinandosi.
-Vattene con quell’immondizia- gli dicevo mentre tastava le rilegature.
-E’ la polvere a renderli così belli. Senti l’odore, vieni-
-Puzzano-
-Può darsi-
Continuava a sfogliarli e a inebriasi di quelle pagine. E mentre fissavo l’inverno dalla finestra, ancora mi interrompeva:
-Antigone, lei sì che era una donna….-
E in risposta al mio silenzio continuava:
-Mica voleva scappare, questa. Se ne stava lì, da sola, perché voleva seppellire il fratello. Lo conosci Sofocle?-
-No, Edipo, non lo conosco Sofocle-
Si era accartocciato a terra con il libro sulle ginocchia e un bel paio di occhiali. Ridacchiava. Non capivo cosa ci trovasse da ridere, era dentro quanto me, dentro fino al collo.
-E’ stato rivoluzionario, Sofocle, pensa che…
Ma i suoi sproloqui letterari erano stati presto messi a tacere dalle urla del Matto. Aspettava un ricovero in psichiatria, non se la passava tanto bene con la testa.
La notte prendeva in mano un cucchiaino e cominciava a farlo cozzare contro le sbarre comunicanti con la mia cella. Colpiva le sbarre e poi rideva, rideva e colpiva le sbarre. Andava avanti tutta la notte fino a che il suo compagno di cella non scendeva dal letto e lo picchiava. Ma lui continuava a ridere.
Che cosa avesse da ridere quello, proprio non lo capivo.
E più quello rideva, più il compagno piangeva.
Forse gliene aveva date troppe.
Così imparava a ridere.
La mattina mi svegliavo con Edipo che leggeva immobile nel solito angolino e che ogni tanto alzava gli occhi, penso per accertarsi fossi vivo.
Poi un giorno, senza un perché fui io a parlargli:
-Pensi che prima o poi uscirò da qui?-
Non fui stupito di sentimi rispondere a sproposito.
-Edipo si acceca. Antigone va incontro alla sua morte vivente perché ha onorato ciò che merita onore. Loro sì che erano eroi-
-Perché parli sempre di Sofocle?-
Sospirava, taceva, e non rideva più.
Si girava su se stesso chiuso a riccio, ogni rumore era ovattato fuorché lo svoltarsi frusciante delle pagine.
Era entrato un po’ di vento, faceva freddo.
Il Matto aveva cominciato il suo isterico ritornello prima del solito. E in una tetra alternanza, quello rideva e l’altro piangeva, riso e pianto, riso e pianto, fin quando si sentì più niente, e poi il Matto ricominciava a ridere, e il cucchiaio a trillare contro la sbarra.
Non lo aveva picchiato quella notte. Si era appeso.
Quel matto aveva fatto impazzire anche lui. Lo dicevo io, che quello non ci stava bene con la testa. Fumavo in un angolo che dava sul cortile con uno sguardo triste che non riuscivo a scrollarmi di dosso. L’avevano trovato appeso che sorrideva. Nessuno gliel’aveva mai visto fare. Quando muori cominci a ridere? A chi interessa se ridi da morto? Lo trasportavano su una barella incelofanata e io mi godevo lo squallido film in un’immagine tetra, sporcata da righe nere orizzontali che si incrociavano nette ad altre trasversali davanti a ogni istantanea che i miei occhi erano costretti a scattare. Sputai come per liberarmi di quell’amarezza, e vidi il libro di Edipo incolpevole destinatario del mio gesto. Lo presi da terra e lo pulii, tolsi la polvere e lo sfogliai. Era vero, il profumo era buono. E non si sentivano nemmeno tanto le risate del Matto quella sera. Accarezzai ancora un po’ la copertina. Era soffice.
La campana era suonata, posavo il libro e vedevo Edipo infilarselo veloce sotto la camicia e guardarmi ammiccando come per comunicarmi che l’aveva fatta franca.
Ci riaccompagnarono nelle stanze. La guardia aprì la porta della cella e con l’impeto di un’ultima speranza infilai il piede tra la porta e il battente perché non si chiudesse. C’era il Matto che se la rideva talmente forte che la guardia nemmeno si accorse di non aver chiuso a chiave la porta, anzi, di non averla chiusa affatto. Edipo aveva serrato il libro in un secondo. La guardia aveva accostato il cancelletto del corridoio. Le luci erano spente.
Faceva freddo, tremavamo entrambi.
-Che fai, scappi?- mi disse Edipo con la voce più tremolante del corpo che l’aveva prodotta.
Non sapevo rispondere. La porta era aperta e il “fuori” a un passo da me.
Resto o vado via?
Mi presi qualche secondo, di scatto abbracciai Edipo che sorrideva e piangeva.
-Sicuro di non voler venire con me?-
-Oh, andiamo, sono un personaggio di Sofocle anch’io-
Gli strinsi la mano senza aver bisogno d’altro e mi misi a correre, voltandomi alla fine del corridoio per vedermelo ancora una volta leggere il suo tomo, con la suo torcia nascosta nel taschino della camicia e tornare a sorridere, soffiandosi il naso.
E mentre abbassavo l’ultima maniglia mi arrestavo, sentendo la bacchetta magica del Matto scappargli di mano e rimbalzare nel buio. E lui che piangeva. La raccolsi e gliela tesi. Ora piangeva e rideva insieme. E ricominciava a tintinnare.
Nella corsa vedevo la brina ghiacciare e volti guardare esterrefatti un uomo che rideva. Mi rotolai giù dalle scale, andai in un bar, assaggiai la neve. E capii che non avrei mai potuto restare, Edipo proteggeva la sua storia, io la mia vita. Mi sistemai in un Motel: i primi tempi non riuscivo a dormire. Quando non pioveva, il silenzio mi angosciava. Era come se il tin-tin del cucchiaio fosse diventato un rituale senza il quale non riuscivo a prendere sonno. E quando nevicava camminavo, e ogni volta che vedevo un cancello chiudersi mi sedevo e contemplavo le porte che si avvicinavano, l’immagine sporca, contaminata dal loro unirsi. Ero dall’altra parte delle sbarre, eppure quelle erano ancora lì, erano ovunque. Potevo scappare, andare via, loro sarebbero sempre restate.
Intanto sorridevo, ridevo,e qualche volta pensavo a chi era rimasto.
Una notte, mentre tutto era buio, mi sedetti su una panchina, sotto l’ultimo lampione acceso e mi misi a pensare davvero. Ma chi era ancora in cella?
L’appeso se ne era andato, era uscito di prigione nel modo più immediato. E mi chiedevo dove fosse, cercando qualche stella in un cielo che vomitava nevischio. E mi tornò in mente il sorriso di Edipo che leggeva, immaginava, raccontava. Se n’era andato, coi suoi libri di cui vedeva la realtà in modo diretto, senza filtri, senza sbarre. E poi c’era il Matto. Il Matto con il cucchiaino. Che ticchettava e rideva. Neppure lui era lì. Il rumore del cucchiaino era l’evasione più sorprendente. Rideva. Ed era felice davvero, era fuori.
Nessuno vedeva le sbarre, fuorché io. E continuavo a vederle, anche ora. Forse pensavo di essermene andato quando invece ero il solo a essere rimasto. Presi lo zaino e camminai, senza perdere di vista cancelli, sbarre alle finestre, inferriate delle chiese, porte blindate delle case.
Non mi veniva più da ridere.
Camminai tanto, fino al penitenziario.
Faceva freddo, ma aveva smesso di piovere. Un misto di polvere e semi di soffione mi veniva negli occhi.
-Come stai oggi?-
-Dimmi che tempo fa-
-Sofocle dice che è tempo di combattere per far valere le leggi divine-
Sfogliavamo le stesse pagine, seduti in angoli diversi, ridendo.
Stavo cercando di andarmene anch’io.
Poi dormivo e sognavo il mio mondo senza cancelli, senza urla, senza irrequiete risate, senza rumori assordanti, reso piacevole dal ridondante trillio di un cucchiaino contro una sbarra.