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Intervista a Gilda Policastro

Gilda Policastro è poetessa, romanziera, e critico letterario. Il suo ultimo libro, Esercizi di vita pratica, è stato pubblicato recentemente (2017) da Prufrock. Ci ha concesso una bella e approfondita intervista. 

Lei ha detto in un’intervista per Le parole e le cose: «il mio stile è non avere stile». In che senso? Davvero non ha una progettualità nella scrittura?

In verità citavo la chiusa di una poesia di Edoardo Sanguineti, che ho trovato sempre enigmatica e al contempo indicativa di un’epoca. Il “non avere stile” era uno smarcarsi dalla poesia comme il faut, il cosiddetto «poetese», la poesia enfatica, ispirata e regressiva (Sanguineti avrebbe detto «reazionaria»). In realtà lo stile di Sanguineti è a tutt’oggi assai riconoscibile: una poesia che si nutre non di ispirazione, ma di eventi, fatti, nomi di persone reali, seguendo la poetica della “ricetta” («si prende un piccolo fatto vero (possibilmente fresco di giornata)») di uno dei testi più noti di Postkarten. Non avere stile oggi può voler dire, dal mio punto di vista, non aderire incondizionatamente a nessuna delle due macroaree che si contendono il campo della poesia attualmente: da una parte la lirica, che comunque nelle sue migliori espressioni (da Milo De Angelis a Valerio Mangrelli a Antonella Anedda fino ad alcuni libri di Marco Giovenale o ad alcuni testi di Guido Mazzoni) è molto distante dal poetese cui Sanguineti era così ostile, e non è altro che un modo di fare poesia più tradizionale, ad esempio andando a capo ed esprimendo in versi liberi (ma questo accade da Leopardi) un pensiero soggettivo, cioè un’idea personale del mondo e della eventuale frattura io-mondo. Dall’altra parte c’è l’area di ricerca o la post-poesia, in cui la soggettività è elusa o archiviata in favore di una percezione impersonale e frammentata e, soprattutto, lo stesso linguaggio verbale non è più in primo piano rispetto alla contaminazione e ibridazioni dei linguaggi, dal visivo al sonoro. È proprio questo aspetto a distinguere le ultime generazioni poetiche dalla neoavanguardia, laddove di solito viene riconosciuta tra le aree della sperimentazione una parentela, se non una derivazione genetica: la messa in crisi della realtà passa oramai attraverso la completa destituzione di centralità del significante e la predilezione delle forme installative su quelle comunicative. Io credo di non appartenere a nessuna delle due aree, in modo costrittivo: nel mio primo libro in versi, Non come vita, uscito per Aragno nel 2013, l’impianto e l’intenzione erano confessional: al centro c’era il poemetto sulla vicenda al contempo biografica e universale della perdita della madre. Avevo appena letto il Diario di Barthes tradotto da Magrelli e cercavo un corrispettivo in versi del frammento in prosa: così vennero fuori le Stagioni, in cui il lutto personale trovava una specie di sistemazione se non vogliamo dire di risarcimento nella forma chiusa e al contempo ciclica delle quattro parti.  Però c’erano anche dei testi che ora chiamo le Ur-Inattuali, perché anticipavano l’impostazione della mia scrittura più recente, del penultimo libro in particolare, intitolato appunto Inattuali (Transeuropa 2016), che trae materia poetica dall’ascolto casuale delle voci degli altri. Fino ad arrivare a quella specie di catalogo flaubertiano dello sciocchezzaio contemporaneo, nel libro più recente, Esercizi di vita pratica (Prufrock 2017), che si nutre di elementi orecchiati sull’autobus o per strada ma anche captati dalla televisione o da internet, visto che ormai la nostra esperienza di vita reale è sempre di più quella che si svolge davanti (o dietro) a uno schermo. Il mio non avere stile, per chiudere, è non sapere esattamente come si collochi quello che scrivo nell’area poetica contemporanea: del resto anche nei poeti criticamente più avvertiti resiste quella zona cieca che sfugge alla stretta sorveglianza della coscienza. Come mi ha detto di recente una persona a me vicina “quella zona cieca sono gli altri, Gilda”.

Ancora una domanda di poetica. In un suo recente post scrive: «[…] Musil è noioso, issimo. E che noia, ragazzi! Avercene ogni giorno, ogni momento, 4eva, di libri noiosi al pari». Musil è noioso per tanti motivi, forse per una certa sua programmatica volontà, nonché per la mole dei volumi. Ma in che modo i suoi libri desiderano essere noiosi? Mi sembra, magari sbaglio, che sotto-trama ci sia l’equazione “divertente” : commerciale = “noioso” : letterario.

Il post, come spesso mi capita su Facebook, nasce da un’occasione precisa: non avevo mai cercato su anobii i giudizi dei lettori sui miei libri e me n’è capitato per caso uno sotto gli occhi, googlando per un’altra ragione il titolo di uno dei miei romanzi. Diceva, alla lettera, che il mio libro era «di una noia mortale». Mi sono sorpresa a non risentirmi per questo giudizio, e anzi, a inorgoglirmene quasi. Questo perché non ho mai creduto alla letteratura come intrattenimento, ma piuttosto come sfida, pungolo, impegno, fatica. Non ho mai pensato sono così stanca che mi leggo un bel romanzo, ma più volte (ed è stato il caso di Musil, ad esempio) esattamente il contrario: non posso leggere ora perché sono troppo stanca, faccio altro. Questo anche al di là della lettura come professione, dei libri da scrivania e non da comodino, cioè di quelli che devo recensire o di cui devo parlare a un convegno o in qualche occasione pubblica. Vale, perciò, per i libri che scelgo di leggere, che qualcuno mi regala, che gli editori o gli autori mi mandano e che non vado a rivendere al “Libraccio” dopo le prime venti pagine (a volte bastano venti righe): la lettura richiede sempre e comunque concentrazione, impegno anche fisico a tenere la stessa posizione, oltre a un ambiente raccolto in cui farsi penetrare dalle parole e non lasciarsele scivolare addosso. Ovviamente perché tutto questo abbia senso, è il libro a doverne avere. Il libro come modo per passare una mezz’ora piacevole al giorno non m’ha mai convinto, ne esistono altri di meno impegnativi e li conosciamo tutti, ormai, dalle serie tivù al calcio ai tanto vituperati talent che sono i feuilleton del contemporaneo. Il resto, come diceva Luigi Malerba, sono libri fatti per costringere la gente a entrare in libreria e consumare e fanno vergognare gli scrittori di dirsi romanzieri. Quando ho pubblicato il mio primo romanzo, Il farmaco, non c’era occasione in cui non precisassi: «badate che comunque non è un romanzo». Avevo pubblicato solo poesia e critica, fino a quel momento, ambiti senza mercato e direi senza lettori, quindi l’immissione di questo intruso di nome pubblico che poteva consentirsi giudizi improvvisati e impressionistici come quello riportato all’inizio di questa risposta, per me era inutile, oltre che inammissibile.

A proposito di Facebook: la sua immagine (colta per mezzo dell’autoscatto) è molto presente nel suo uso dei social. In che termini questo può rientrare nella sua poetica?

Credo di aver inventato (perlomeno entro la mia filter bubble) il selfie su Facebook, in qualche modo. Nel senso che quello che oggi s’intende per selfie non è alla lettera un autoscatto ma più in generale la nostra autorappresentazione, la curatela, come ha detto qualcuno, della nostra vita o della nostra immagine nei social. Mi dibattevo tra il rigore e la rigidità richiesta dal mio ruolo di studiosa e di critica e l’entusiasmo per il nuovo mezzo e la possibilità di condividere delle pose online, essere presente con un avatar nei nuovi luoghi della comunicazione e dell’interazione globale: quello che a me interessava, in realtà, dei social, era la possibilità di lanciare temi o di scambiare idee in modo molto rapido, ma se l’algoritmo favoriva i post con le immagini, non avevo nulla in contrario a proporre la mia, a complemento del testo (ma più spesso in dissonanza). Trovo molto ipocrita usare Facebook camuffati: è come i nick che si usavano una volta nelle discussioni in rete. Tu eri (e in alcuni casi capita ancora) lì con la tua faccia a sostegno delle tue idee (o viceversa) e gli altri ti circondavano mascherati per aggredirti o contestarti. Molto iniquo se non vigliacco. A fronte di questo va detto anche che al di là dell’uso strumentale dell’autoscatto accanto alle mie dichiarazioni critiche o di poetica, non ho mai adoperato Facebook in modo strettamente personale: il medium del narcisismo di massa mi è servito a conservare un mio spazio di autorevolezza (conquistata in prima istanza fuori dalla rete) specie in momenti in cui non scrivo sui giornali o non su quelli che contano (o contavano) a livello di opinione, mai a far propaganda della mia vita privata. La mia pagina Facebook non è il mio diario, secondo il principio dell’«estimità», su cui aveva a lungo riflettuto Bauman, ma piuttosto il mio elzeviro. Nessuno sa niente della mia privata da Facebook, e mi fa particolarmente piacere venir invitata in trasmissioni radio o televisive per qualche mio post, al di là che accetti o meno l’invito. È segno che i media tradizionali prendono da Facebook molto più di quanto Facebook prenda dai media tradizionali, e questo è senz’altro positivo, nell’evoluzione delle forme e dei linguaggi.

Prosa, poesia, prosa critica. Nella generale tendenza a specializzarsi, lei sembra invece dirigersi all’opposto. È importante per lei una certa ecletticità?

Non so se sia ecletticità o piuttosto adaequatio secondo il principio medievale. Una volta Franco Buffoni ha detto che quando inizia a scrivere sa subito se si tratterà di versi o di prosa. Credo valga anche nel mio caso: esiste una rispondenza tra una determinata occasione, urgenza o tema e la sua possibilità di sviluppo. Chiaro che avendo passione e credo predisposizione un po’ per tutte le forme (la saggistica, sin dai temi delle medie, i romanzi dai pomeriggi di dissipazione delle superiori, la poesia da quando ho cominciato a leggerne di contemporanea, soprattutto all’università), non voglia rinunciare a nessuna (e perché poi, per un’ansia sclerotizzante che non è la mia?). Ogni tanto scopro che qualcuno dei miei colleghi o amici fa le classifiche tra le mie diverse forme di scrittura e per fortuna non sono tutti d’accordo: io credo di aver fatto qualcosa di buono in ciascuno dei tre ambiti, e di poter rinunciare, forse, solo alla saggistica più accademica, quella che oltre a non avere mercato non ha proprio più lettori, coi programmi ridotti a bigini di nozioni confuse e sconnesse e le collane mortificate dai criteri valutativi di organi dalle sigle misteriose che qualcuno a un certo momento ha catapultato sulla scena dell’università italiana. Però un Professore emerito come Luigi Blasucci una volta mi ha detto: ‘’Questo tema delle catabasi ormai è tuo, non si può parlarne senza citarti’’. Sono, come si suol dire, soddisfazioni, anche se solo private.

Ci parli del suo ultimo libro.

esercizi-di-vita-pratica-copertina-2Il mio ultimo libro edito è in versi, si chiama Esercizi di vita pratica e si compone di quattro sezioni. La prima e l’ultima sono più tradizionali, diciamo così, e quelle centrali più sperimentali. Come dicevo rispondendo alla prima domanda, ho cominciato a registrare le voci degli altri dopo averle a lungo percepite come fastidio, intoppo alle mie attività che sono rivolte soprattutto alla lettura e alla scrittura, a svolgere le quali il sottofondo di città non si presenta come condizione ideale. Venivo raggiunta da questi lacerti di senso, queste pseudosentenze («la verità è che i quattro salti in padella non so’ cattivi», «quanno fa freddo nun se dovrebbe lavora’», «Ibiza in sé non è sbagliata»), attorno a cui, nel precedente libro, costruivo una mia poetica del mondo intorno, fino ad arrivare ad un cut-up dei modi di morire, presi indifferentemente da Google, dai discorsi degli altri o dai libri (Infinite Jest, ad esempio, che leggevo in quel momento). Questa idea è poi diventata una specie di ricerca consapevole e continuativa, per cui ogni volta che esco sono pronta a imbattermi in qualche “nuova inattuale” ovvero a farmi raggiungere da qualche epifania sonora, che puntualmente registro. Il titolo tenta di riconvertire questa persecuzione delle voci altrui in una specie di apprendistato della vita comune, la vita che gli altri, quelli che non scrivono e non leggono (o perlomeno che non lo fanno al bar o in treno o nei momenti in cui vorrei farlo io) vivono e parlano di continuo. Queste pseudosentenze nel nuovo libro sono circondate dal bianco della pagina: il sogno di un silenzio impossibile che vorrei intorno. Il mio ultimo libro inedito, invece, è un finto-giallo, tra Sofocle e Gadda, che spero leggerete presto, ma non sarà facile trovare un editore che stampi un libro del genere, anzi, de-genere, per dirla alla Magrelli. Adesso non mi vergogno più di scrivere romanzi, e nemmeno di ficcarci dentro un po’ di versi qua e là, proprio come Magrelli in Geologia di un padre o Nel comdominio di carne.

Non avrei voluto domandarle del suo ruolo di donna nel panorama letterario. Ma in una sua intervista ha detto di esser stata bersaglio polemico – per un periodo – proprio in virtù (è una sua ipotesi) del suo ruolo di donna-critico. È ancora così? È davvero ancora “inusuale” o mal vista la presenza delle donne nel panorama critico?

Qualche tempo fa come redattrice di una rivista accademica curai una sezione di interviste sulla critica contemporanea: a parte la sottoscritta, si fece fatica a individuare nomi di critici-donna che potessero garantire una presenza differenziata (senza voler indulgere alla retorica delle quote rosa, triste e discriminatoria). D’altra parte basta sfogliare i supplementi letterari: ci sono poche, pochissime donne a parlare di letteratura sui giornali italiani, nessuna delle quali è un critico letterario, più spesso si tratta di scrittrici (penso alla Stancanelli su Repubblica) o di opinioniste (come la Soncini o la Lucarelli) che fanno chiacchiera (e audience). Credo di essere stata molto penalizzata in questo ambito dalla scarsa abitudine dei direttori dei supplementi con cui ho collaborato a interloquire con un critico-donna: non esiste nemmeno il femminile del sostantivo, come si dovrebbe dire, la critichessa? Sembra una parodia, una presa in giro. A tacere del fatto che è il critico in sé ad essere stato scalzato via dagli opinionisti paroliberisti o dai presunti opinion leader del web prestati alle terze pagine (per fortuna a brevissima scadenza, com’è a tutti evidente). Una volta si comprava il quotidiano per leggere il pezzo di una firma autorevole, adesso o non si compra proprio più e si recuperano le notizie dal web oppure si è costretti a leggere pezzi scritti senza una minima idea critica, come mere registrazioni (oltretutto sciatte e sciape) di trame e contenuti graditi al lettore. Questo perché i giornali sono vecchi, diretti da vecchi, gestiti in modo vecchio: contano i legami personali, la disponibilità incondizionata, la capacità o la volontà di partecipare con costanza ai riti stantii di quella che una volta si chiamava società letteraria e adesso è solo una giostra arrugginita.

Una domanda scomoda: da critico, quali sono gli scrittori contemporanei più promettenti? Lei si inserirebbe nel canone?

Certo: se non pensassi di inserirmi in un canone, nemmeno pubblicherei. E a proposito di gender, io starei bene, credo, in un canone di scrittori, perché non ho molto in comune con le autrici italiane, specie mie coetanee, né a livello di immaginario, né di lingua. Nemmeno con le poetesse, a dire il vero. Di scrittori che certamente leggo con passione, qualunque cosa scrivano, e sulla cui resistenza al tempo non ho alcun dubbio sono Giorgio Falco (romanzo) e Carlo Bordini (poesia). Ma non sono esattamente degli esordienti, anzi. In quest’ultimo ambito mi sento di appoggiare più che il singolo nome il progetto complessivo della collana di narrativa di Tunué, che grazie a Vanni Santoni e al suo scouting intelligente si è affermata come un bacino di talenti da cui gli editori maggiori potrebbero pescare, ad averci interesse per le scritture e non per le copie vendute. Il che, in questo momento, purtroppo non si dà. Il rendiconto si è sostituito al progetto: se sei sotto la soglia minima non solo non è mai colpa di chi non sa promuoverti o sostenerti adeguatamente, ma come spesso accade nei consessi associati il torto subito diventa una tua colpa, e devi condannarti alla marginalità, all’autocensura o alla vacanza di esistenza, per sopravvivere. Ma verrà un giorno…o almeno questo non continuerà per sempre, ecco.

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