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INTERVISTA A FABRIZIO POGGI: UN BLUESMAN TUTTO ITALIANO

Non penso esista nessuno indifferente alla musica, quella buona, quella che indipendentemente dal genere ti fa venire i brividi o ti fa cantare a squarciagola. Personalmente, ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia dove la musica è legge, dove io e mio fratello a 5 anni ci trovavamo a cantare canzoni degli Who, degli Yes e dei Jethro Tull, dove Finardi e Brian Adams erano richiesti a gran voce nelle lunghe traversate in macchina per le vacanze. Ho quindi imparato ad amare generi musicali che al giorno d’oggi non tutti hanno la voglia di ascoltare o di capire, preferendo altri mondi, che comunque apprezzo e condivido.

Tra questi generi musicali in parte inesplorati da noi giovani, rientrano anche il Jazz e il Blues. Ed è proprio un Bluesman quello che ci ha gentilmente concesso un’intervista oggi.

Fabrizio Poggi è un “armonicista da paura!”, come lo ha definito Dan Aykroyd, l’Elwood Blues dei Blues Brothers. Ma non è solo questo. Cantante e armonicista premio Oscar Hohner Harmonicas, candidato ai Blues Music Awards 2014 (gli Oscar del blues), candidato ai JIMI Awards 2014 (gli Oscar della prestigiosa rivista Blues411) come miglior armonicista dell’anno nel mondo. Fabrizio Poggi ha suonato e registrato con tanti grandi del blues, del rock e della canzone d’autore. “Juba Dance” il disco che ha preceduto “Spaghetti Juke Joint” e che ha inciso con Guy Davis è stato per ben otto settimane al PRIMO posto della classifica dei dischi blues più trasmessi dalle radio americane.

Un curriculum niente male! Alla richiesta di parlarci un po’ di lui, per presentarsi ad un pubblico che potrebbe non conoscerlo, umilmente riferisce di preferire che siano gli altri a presentarlo, per paura di risultare “sbilanciato tra il troppo e il troppo poco”. Ma dalle sue risposte emerge comunque una personalità ben definita: entusiasta, e follemente innamorato del suo lavoro di musicista.

– Come è nata in te la passione per la musica e per il blues in particolare?

Difficile dire quando e come mi sono “ammalato di blues”. So solo che fin da ragazzo più di quarant’anni fa sono sempre estremamente affascinato dal sound primitivo del blues e dello spiritual.
Per me il blues non è una musica, è un miracolo.
E il grande miracolo del blues e dello spiritual è proprio quello di essere una musica così piena di forza e saggezza da riuscire a toccare ogni cuore, in ogni parte del mondo.
Non importa dove tu sia nato, quale sia la lingua che parli o il colore della tua pelle.
Il blues è un dono meraviglioso che gli afroamericani hanno voluto regalarci per guarire la nostra anima.
Uomini e donne, che da un dolore infinito hanno saputo tirar fuori dalle acque fangose del Mississippi il blues, una musica che è diventata una medicina capace di guarire tutte le tristezze del mondo.
Una musica che è diventata, come ho già detto, la madre di tutte le musiche moderne.
Sul muro di un vecchio negozio di dischi del Mississippi c’è scritto: “Chi non ama il blues ha un buco nell’anima”. E chiunque abbia ascoltato almeno una volta il blues non può che dare ragione a chi ha scritto quella frase su quel muro, tanti e tanti anni fa.
Il blues è e sarà sempre attuale, magari trasformandosi come ha sempre fatto, perché il blues è rabbia, dolcezza, disperazione, tenerezza, passione. Finché ci saranno sentimenti che risiedono nei luoghi più intimi e segreti dell’animo umano ci sarà posto per il blues.
Il blues altro non è se non libertà dalla sofferenza.
Libertà di scacciare le proprie malinconie, soffiando dentro a un’armonica o passando il collo spezzato di una bottiglia sul manico di una chitarra.
Il blues è una grande, grandissima medicina di cui ci sarà sempre grande bisogno.

– Ho letto delle tue esperienze americane ripetute nel tempo, i tours, gli album, i premi: l’America è qualcosa che hai fortemente voluto, legata alla tua passione per il blues, o è qualcosa che è semplicemente capitato, come logico sviluppo di carriera?

Credo entrambi, non è possibile scindere le cose. La musica americana e la cultura che l’ha prodotta sono inseparabili.

– Ho assistito ad un tuo concerto e ho quindi visto con i miei occhi l’efficacia della tua comunicazione, e la domanda mi nasce spontanea: la tua capacità di interagire con il pubblico durante le performance è stimolata dal momento di particolare coinvolgimento, a ciò che il contesto dello show musicale provoca in te e alla successiva volontà di trasmetterlo, o piuttosto è una lucida volontà di “indottrinamento” e di guida per tenere alta la tensione/concentrazione, e guidare le persone ad interpretare lo spettacolo nel modo giusto?

La mia risposta è già insita nella tua domanda. Certo ogni concerto ha una storia a sé e il feeling con il pubblico cambia di volta in volta quindi la volontà forse non è sempre così lucida così come non vorrei che il mio fosse un vero e proprio indottrinamento ma semplicemente condividere emozioni che se hanno colpito me forse colpiranno anche gli altri. E spesso per mia grande fortuna questo succede. E poi tutto questo l’ho imparato in America dove spesso un concerto di blues non è solo un’esperienza sonora ma molto molto di più. Sul mio sito internet puoi trovare un articolo che si chiama “Blues is healing”. Lì troverai senz’altro tutte le risposte che vuoi a questa domanda ma soprattutto cosa è davvero nella sua essenza una performance di musica americana che non sia solo puro intrattenimento o un’imitazione di una cultura che se non si comprende appieno diventa secondo me impossibile da comunicare.

– Il tuo strumento principe è l’armonica a bocca: riesci a immaginare un album blues senza di essa?

Oh si certo, ci sono tantissimi bei dischi di blues in cui non è presente l’armonica. Non è quello a fare la differenza ma l’intensità di ciò che ascolto.

– Qual è stato l’artista, tra i tanti conosciuti, con cui hai instaurato la maggior intesa e soddisfazione? Hai una spiegazione razionale?

Credo che sia Guy Davis anche se mi è difficile dare una spiegazione razionale.
Il nostro primo incontro risale al 2007 quando ci siamo conosciuti ad un festival blues negli States. Tra noi è nata quasi subito una profonda amicizia basata non solo sulla stima reciproca ma anche sulla passione che entrambi abbiamo per il blues più autentico, quello delle radici, quello che gli schiavi cantavano nelle piantagioni di cotone. Negli ultimi sei anni il nostro stretto legame personale si è concretizzato sia in concerti live, nell’incisione da parte di Guy di un paio di tracce nel mio disco “Spirit & Freedom” e ora in questo disco che Guy Davis mi ha chiesto di produrre artisticamente.
Un attestato di stima che mi emoziona e mi riempie di orgoglio anche perché Guy Davis – è uno degli ultimi grandi maestri del blues erede diretto di Robert Johnson e John Lee Hooker.
Guy Davis ed io siamo estremamente affascinati dal sound primitivo del blues e dello spiritual. Da quella musica che si suonava “senza elettricità” sotto la veranda di quelle baracche sparse tra i campi di cotone del Sud degli States. Gran parte dell’ “anima del blues” sta ancora nelle canzoni che si cantavano laggiù. E poi il suono acustico ci permette di raccontare meglio le storie che stanno dentro e intorno a questo misterioso e magico genere musicale.
L’anima del disco che vede l’incontro, l’abbraccio e la fusione totale e completa tra due musicisti provenienti da mondi apparentemente lontani, distanti anni luce non può che assumere il colore un po’ virato di una vecchia fotografia in bianco e nero o quello di un disegno a carboncino. Questo perché probabilmente in un’altra vita Guy ed io eravamo fratelli e già suonavamo il blues sotto la veranda di casa. Solo per noi… Senza pensare a quello che sarebbe venuto dopo.
E forse in quell’altra vita non c’erano nemmeno le macchine fotografiche, ma solo un ragazzino che seduto innanzi a noi tracciava i nostri ritratti su foglio di carta ingiallita, recuperata chissà dove…

– Qual è stato il luogo, il concerto o il festival che ha lasciato in te il segno maggiore?

Le esperienze negli Stati Uniti lasciato un segno indelebile nella mia anima e forse non basterebbe un libro a contenerle tutte. Esperienze che mi hanno fatto diventare, pur senza volerlo il bluesman italiano più conosciuto oltreoceano.
La candidatura all’Oscar del blues, i tanti premi ricevuti, suonare da vivo e registrare con molti dei miei “eroi” musicali, musicisti che hanno fatto la storia della musica moderna e ricevere da loro attestati di stima assolutamente emozionanti…
Ma più di qualsiasi altra cosa ci sono un paio di episodi che hanno lasciato un segno indelebile nella mia anima.
Qualche anno fa, in Mississippi, ho avuto il privilegio di suonare nei locali dove il blues è nato.
Una grande emozione l’ho provata un pomeriggio a Greenwood, un paesino sperduto del Mississippi. Solitamente, durante quel tour, io e il mio socio ci esibivamo alla sera; ma lì a Greenwood invece dovevamo suonare nel pomeriggio. Ad ascoltarci, proprio in virtù di quell’orario insolito, almeno per noi, c’era un pubblico formato da persone di ogni età: giovani, famiglie, anziani, bambini. Tutti neri. Tranne noi.
Durante una pausa tra il primo e il secondo tempo del concerto mi si avvicina una signora afroamericana di una certa età. Avrà avuto un’ottantina d’anni, più o meno l’età di mia madre. Mi prende per un braccio, lo stringe leggermente e poi mi dice: “Hey man, you touched my heart” – mi hai toccato il cuore .
Quella signora quasi sicuramente non aveva capito che non ero di lì, ma che venivo da molto lontano. Non lo aveva capito perché forse non sapeva nemmeno dove fosse l’Italia. Ebbene, quella signora che forse non solo non era mai uscita dal Mississippi, ma probabilmente nemmeno dalla sua contea, mi diede -senza saperlo- la più grossa soddisfazione della mia vita. Se esistesse un’università del blues, quella signora, quel giorno, mi avrebbe conferito la laurea. Una laurea in blues. Ma soprattutto mi fece capire che quando suonavo il blues ero uno di loro perché parlavo la loro stessa lingua. La lingua del blues.
E che tutti i sacrifici fatti in questi anni per portare la mia musica un po’ ovunque erano serviti a qualcosa. Erano serviti a toccare il cuore di una signora dall’altra parte dell’oceano. Una signora che probabilmente nella sua vita aveva ascoltato solo blues… Una signora che non dimenticherò mai. E a proposito di linguaggi comuni, Jimmy Carter il leader e più anziano componente dei Blind Boys of Alabama (oggi considerato sicuramente il gruppo gospel più importante al mondo), mi ha rivelato di considerarmi un fratello. Un fratello musicale. Sono privilegi questi che toccano il cuore. Che ripagano di tanti sacrifici e bocconi amari. Quando ho confidato al mio amico Jimmy Carter che ancora oggi vengo assalito da dubbi e paure di non essere all’altezza, di venire considerato, forse anche giustamente, in maniera diversa, per il fatto di essere nato e cresciuto in un paese che ha una cultura musicale totalmente differente Jimmy mi ha detto: “Sai Fabrizio, io sono cieco dalla nascita. Si me l’hanno spiegato e quindi mi sono fatto un’idea, ma i concetti di nero, bianco, italiano, americano non significano molto per me. Non riesco a comprenderli fino in fondo. So solo che quando ti sento suonare la tua armonica, ti considero uno di noi. Non sento nessuna differenza tra me e te. E’ come se parlassimo la stessa lingua. Ti considero uno di famiglia, uno che appartiene alla mia stessa famiglia musicale”. E quando un’icona del gospel e della musica afroamericana ti dice questo cose l’unica cosa che puoi fare è scolpire le sue parole nella tua anima e commuoverti sino alle lacrime.

– Come nasce la tua voglia di scrivere storie di musica?

Con la necessità di condividere storie che hanno affascinato me per primo . Continuo comunque a considerarmi più che uno scrittore un musicista che scrive. Quello di bluesman e quello di scrittore sono due mestieri che permettono entrambi di raccontare storie. E il mondo ha bisogno di storie: belle, edificanti e che riempiono il cuore. Proprio come le storie che girano intorno al blues. Quelle che ho raccolto in tutti i miei libri e in particolare in “Angeli perduti del Mississippi”.

– Tra le tue pubblicazioni specifiche mi ha colpito “I Cantastorie: una strada lunga una vita”: come è nata l’idea?

I cantastorie pavesi dagli anni cinquanta e gli anni settanta sono stati i più famosi cantastorie d’Italia. La loro storia è bella, epica e commovente. Sono stati la colonna sonora nelle piazze per tutte quelle persone che non avevano un giradischi. Era astato scritto qualcosa su di loro nel passato ma ormai non si trovava più nulla o quasi. Nemmeno in rete. In qualche modo anche loro erano dei bluesmen. Anche loro come i bluesman cantavano e raccontavano storie. Mi è sembrato un dovere morale raccontare la loro grande vita in un piccolo libro.

– Nell’occasione in cui ti ho visto dal vivo ho ascoltato parole significative legate al rapporto con tua moglie Angelina: cosa ha rappresentato per te, al di fuori del ruolo tradizionalmente riconosciuto ad una compagna di percorso?

Angelina per me è davvero molto più di una moglie. E’ la persona che auguro a tutti di incontrare nella vita. Auguro a tutti di incontrare un’ Angelina o un Angelino che, come canto nella canzone, quando vi perderete nella vostra vita, e a volte capita, vi riporta a casa, come sempre.
Angelina mi ha aiutato a venire fuori da un buco nero in cui ero caduto qualche anno fa e mi è sempre stata vicino nei miei progetti. Chi conosce un po’ la mia storia e quella dei Chicken Mambo sa che molte cose che ci sono accadute in questi anni non sarebbero successe senza il “magico” intervento di Angelina. A lei e tutte le Angeline e tutti gli Angelini che ci sono nel mondo ho dedicato una canzone che è un omaggio a tutti coloro che ci sostengono nei momenti difficili e ci aiutano a realizzare i nostri sogni. E io so che sono tanti. Ne sono sicuro. E so c’è un Angelina o un Angelino per ciascuno di noi.
Io sono stato fortunato. Io l’ho trovata la mia Angelina.

– Quali sono i tuoi progetti imminenti?

Continuare a suonare “come se fosse l’ultima volta” ovunque ci sia “voglia di blues” per tutti coloro che mi seguono da anni e apprezzano la mia musica. Per loro suonerò come sempre ho fatto e sempre farò e cioè dando l’anima, dando tutto me stesso e accettando con gratitudine tutto ciò che la Divina Provvidenza mi farà trovare sulla mia strada. Ho già realizzato molti sogni. Molti più di quanto io mi aspettassi nelle più rosee previsioni. Potrei smettere di suonare domani e avrei abbastanza ricordi per il resto della mia vita; ma se Dio mi darà la salute (la cosa più importante) non smetterò mai o almeno non sino al giorno in cui prima o poi un angelo mi porterà da qualche altra parte direttamente dal palco di un locale del Mississippi o da quello di un festival di casa nostra. E’ uscito da qualche mese il mio disco numero diciotto che sto presentando ovunque e all’inizio di marzo partirò per un tour con Guy Davis che toccherà mezza Europa (ahimè Italia esclusa).

Vuoi saperne di più su Fabrizio Poggi? Guarda l’articolo di Inchiostro 138 a pag. 17: http://inchiostro.unipv.it/2015/03/31/inchiostro-n138-febbraiomarzo-2015/

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