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Intervista a Lorenzo Cremonesi

a cura di Matteo Miglietta

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È appena finita la conferenza in cui ha parlato della sua esperienza e del “coraggio d’informare”. Ci precipitiamo quindi sul palco per fargli qualche domanda in più ma lui, Lorenzo Cremonesi, storico inviato del Corriere della Sera nelle zone di crisi più calde del pianeta (vedi l’articolo pubblicato su Inchiostro qualche settimana fa), oltre ad essere estremamente gentile e disponibile è anche molto ricercato. Ci accodiamo allora allo stuolo di giovani aspiranti reporter che cercano di carpire qualche sfumatura in più della sua personalità. Qualcuno gli chiede:

Ma a volte non le viene voglia di mollare carta e penna e buttarsi nel fango? Come si fa in situazioni così drammatiche a scindere l’aspetto professionale dal coinvolgimento emotivo?
Intanto tenete conto che quando uno vede tante crisi poi diventa più scettico e distaccato. In ogni caso bisogna cercare di farlo, tenendo conto innanzitutto di non vedere le cose con gli occhi di chi vive sul posto, ma pensando al lettore che sta dall’altra parte. In questi casi mantenere un certo distacco ti aiuta molto. Ho visto bambini morire, gente chiedermi aiuto perché avevo 1000 dollari in tasca e a loro ne bastano 20 per avere dell’acqua. Ma cosa puoi fare? Ho visto gente moire davanti ai miei occhi ma  il mio mestiere è un altro.
Una cosa che ho sempre criticato ai miei colleghi è ciò che ricordo essere accaduto in Afghanistan, ad esempio. Lì c’è tutta la questione sul problema dei trattamenti riservati alle donne. Appena dopo la guerra c’era chi andava dai signorotti locali e li sfidava. Usava il linguaggio del corpo non rispettando i loro codici e costumi, levandosi il velo mentre parlavano o criticandoli perché avevano sposato delle bambine. Questa è una battaglia che non ha senso. Io se posso vado ad intervistare Hitler! E sarò felice se riuscirò a raccontarti il suo pensiero, dopo di che starà a te giudicare se è un criminale o no. Altrimenti divento un censore. Chi sono io per giudicare? Perché devo andare da un talebano e dire che a 60 anni non può sposare una bambina? Lo so che è orribile e io da qua leggendo il pezzo mi arrabbio. Ma lì devo raccontare e farò di tutto per essergli simpatico perché dovrò raccontarlo e non giudicarlo. Questo credo sia il mio mestiere.

Riusciamo a fargli una prima domanda: non trova che siamo entrati in una sorta di circolo vizioso per cui i gli inviati come lei dicono che certe notizie non interessano ai giornali perché non vendono. Dall’altra parte però ci sono le persone che si giustificano dicendo che i giornali dovrebbero educarli alla lettura. Forse la crisi della carta stampata che stiamo vivendo oggi, nonostante i suoi aspetti negativi, potrà essere il modo per uscire da questo circolo vizioso. Cosa ne pensa?
Io sono d’accordo con voi. È un tema molto importante ma dobbiamo avere il coraggio di dire al lettore  “lo so che tu mi leggi poco e vorresti sapere tutto del calcio ma io cerco di darti un prodotto di qualità”. Non tanto per educare, ma per dare il giusto valore all’esperienza. Qui però dobbiamo distinguere la TV dalla carta stampata, perché hanno ruoli diversi. Chi scrive è letto da delle minoranze: classi dirigenti, studenti, studiosi, intellettuali. Quello è il nostro pubblico, che è ancora enorme ma non lo coltiviamo abbastanza. Ci siamo appiattiti su Rete4 e sullo spettacolo, e sbagliamo. Come diceva Hersh (anche lui presente al Festival di Perugia, ndr) in un’intervista, nel passato c’era una grande famiglia alla guida dal New York Times che aveva una sorta di logica del non-guadagno: se guadagnava troppo reinvestiva nel giornale. Questo è bellissimo. A noi invece a un certo punto hanno tolto degli strumenti con la logica delle lavatrici, cioè come se producessimo dei beni. Ma il nostro è un giornale, è ben diverso. Ad esempio, anni fa ci hanno tolto i dimafoni perché costavano troppo. Ora per voi sto parlando della Preistoria, ma io li ho usati fino a 10 anni fa e finché sono esistiti il giornalista poteva dettare il pezzo al telefono con il dimafonista che, in redazione, prendeva appunti e buttava giù l’articolo. Oggi questa cosa che sembra superata è in realtà fondamentale. A me è successo una volta a Gerusalemme che fosse scoppiata nella notte una bomba in una discoteca provocando decine di morti. Stavo dormendo in albergo e mi hanno svegliato dicendomi di correre sul posto. Io l’ho fatto e al telefono, a mezzanotte, ho dettato il pezzo al dimafonista. Siamo usciti con un pezzo d’attualità dal campo prima dei giornali israeliani.

Dopo di lei, al Collegio Nuovo di Pavia è venuto Antonio Caprarica e una persona del pubblico gli ha chiesto come si fa a distinguere le informazioni che ci arrivano continuamente, in massa, da quelle che servono davvero. Lui ha risposto che ad esempio nel giornalismo un grande pericolo sono i giornalisti embedded, di fatto dicendo l’esatto opposto di quanto lei ci aveva detto una settimana prima.
Infatti non sono d’accordo. L’ho detto a Pavia e lo ripeto sempre: basta dire che sei embedded. Non c’è niente di criminale perché ci sono posti dove non puoi far altro. Attenzione poi a chi predica bene e razzola male perché c’è chi dice di essere andato in un posto e invece non ci va o lo vede per 10 minuti dal finestrino, c’è chi firma le interviste che non ha fatto lui o le copia. Questo è un danno grandissimo per il giornalismo perché dà forza a quei direttori che dicono “non serve che tu vada sul campo,stai qui copia da internet”. Invece andare in loco ha un valore enorme, con tutti i suoi limiti, anche embedded. Io ho fatto dei servizi con gli americani sugli elicotteri a caccia di Osama Bin Laden che non avrei mai potuto fare se non fossi stato embedded. Non giochiamo a fare gli ipocriti. L’idea del giornalista libero che va in una zona di conflitto e fa quello che vuole non esiste, perché se vai con i terroristi e loro hanno un informatore e ti scoprono, ti fanno fuori! Gli americani ti censurano e ti rimandano a casa, loro ti fanno fuori.

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