Sport

Intervista a Gianni Minà, giornalista, scrittore e conduttore televisivo

di Stefano Sette e Simone Lo Giudice

 

Lo scorso 25 aprile, in occasione del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, si è svolto presso il Teatro Pavone l’incontro “Viaggio in 50 anni di storia del giornalismo italiano” in cui Gianni Minà, giornalista e per molti anni conduttore televisivo, ha mostrato vecchi filmati RAI, raccontando le sue esperienze professionali e i lati umani di alcuni campioni dello sport come Tommy Smith,  medaglia d’oro a Città del Messico sui 200 m piani, e Cassius Clay-Muhammad Ali. Inchiostro è riuscito a intervistarlo al termine della conferenza, e ne è scaturito un colloquio che riportiamo qui sotto.

Inchiostro: Il giornalismo di oggi permette ancora una trasversalità agli apprendisti, oppure bisogna specializzarsi in un settore?

Gianni Minà: Io penso che un giornalista deve essere in grado di svolgere il suo lavoro a tutto campo, specializzarsi lo fanno gli scienziati. Il giornalista non è uno scienziato: è un cronista di qualcosa che succede e ci sono più mezzi, forse, per far sapere quello che sei riuscito a scoprire di quella persona, di quella storia, ma non è che uno si deve specializzare. C’è questo pericolo che tutti si specializzano su Twitter, ma quelli non sono giornalisti.

Parlando dell’intervista lei l’ha definita un duello: presuppone che ci sia un vincitore e un vinto tra intervistatore e intervistato?

No. Non ci può essere un vincitore e un vinto. Il vincitore, se è stato bravo, è il giornalista che è riuscito ad avere una notizia in più, se quella persona gli ha aperto il cuore ed è riuscito a battere la reticenza. Il nostro mestiere è abbattere la reticenza, sennò è inutile. Un bravo giornalista serve quanto un farmacista o colui che rende più vivibile il rione in cui abiti. Questo è il nostro mestiere e se fai della buona informazione ci riesci, se la fai cattiva alla lunga paghi.

Altro genere di buona informazione è il documentario. Se dovesse dare una definizione, l’elemento imprescindibile di un documentario è la fedeltà?

E’ lo stesso di scrivere un articolo. Il documentario deve contare qualcosa di più di una cosa che interessa alla gente. Cos’è il di più? Le immagini. Se filmi le cose, tante volte non c’è nenache bisogno del tuo testo. Le immagini parlano da sole. Tante volte le immagini servono con la musica. Le musiche di autori o di cantautori, che spiegano la società dove vivono, spesso sono più cantate delle righe che tu scrivi nel documentario perché gli artisti, i poeti, con poche parole di una canzone, ti squarciano una realtà che tu con tante aprole non sei stato capace di raccontare.

Lei ha detto che box e ciclismo sono sport defunti, mentre il calcio sopravvive a stento: solo colpa del denaro?

Non è solo colpa del denaro, ma dell’educazione che una società subisce. Certamente quella è una responsabilità però il denaro, il mercato, è quello che manda più al macello lo sport.

Oggi per intervistare uno sportivo c’è bisogno dell’autorizzazione dell’ufficio stampa o del procuratore: quanto ha inciso nel distacco col pubblico?

Non è che puoi accettare l’economia neoliberale, il mercato, e poi lamentarti se il giocatore si presenta con tre professionisti della comunicazione per vedere se è il caso di darti cinque minuti per una risposta. Quando ero giovane non pensavo che la professione mi avrebbe dato così tanto prestigio, per cui in molte occasioni erano i protagonisti che volevano venire nel mio programma, o farsi intervistare da me, perché il quel momento ero un professionista di successo. Non c’è più la società che produceva quello sport. Ho fatto un documentario su Nereo Rocco, il grande allenatore del Milan, insieme a Gianni Brera. Lo girammo a Trieste e Maria, moglie di Rocco, portava sempre nuove bottiglie di vino. Alla fine di questo documentario c’erano venti bottiglie di vino. Era tutto molto affettuoso, il mister non era una persona permalosa. Ora tutti gli allenatori son permalosi, si offendono, però anche i giornalisti vogliono insegnare il mestiere agli altri. Tu fai il giornalista, non sei il tattico; spesso è una presunzione dei giornalisti di voler insegnare come si mette in campo una squadra. Alcuni sono capaci ma non tutti lo sanno.

Ci possono essere analogie tra Tommy Smith e Socrates, dal punto di vista extrasportivo?

Erano due contesti diversi: Tommy era veramente il campione di una generazione. Era l’epoca delle pantere nere negli Stati Uniti, l’epoca della sociologa Angela Davis, che è stata un leader dell’opposizione ai governi degli Stati Uniti. Aveva un ruolo di valore l’atleta negli Stati Uniti. Ne ho presentati due: Muhammad Ali, pugile, Tommy Smith, campione di atletica. Avevano tutti e due una battaglia per migliorare i diritti civili dei neri d’America. Socrates ha fatto quello che ha potuto in una società dove c’era la dittatura, perché in Brasile prima c’era la dittatura. Quando ha finito di giocare la democrazia era appena arrivata. Certo, ha avuto coraggio, ma ha potuto fare meno di quello che hanno potuto fare Muhammad Ali e Tommy Smith.

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