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«Sto in ascolto della vita e così nasce la poesia» – Intervista a Franco Loi

È un piacere che questa intervista –  fatta circa quattro anni fa ma mai pubblicata – possa essere letta dal pubblico di «Inchiostro».
Lettori in maggioranza giovani, perché Franco Loi amava stare in mezzo ai giovani. Forse il maggiore poeta «in dialetto» della letteratura italiana nell’ultimo scorcio del Novecento, era curioso, allegro, capace di mettersi in ascolto e sullo stesso piano di chi aveva molte decine di anni meno di lui. Se n’è andato a 90 anni in un giorno di gennaio, il mese del gelo ma anche quello del suo compleanno, che sarebbe stato il 21. Ha avuto anche la fortuna che la sua sensibilità, la cifra della sua poesia siano state riconosciute: libri come L’aria, Isman, Amur del Temp, l’antologia einaudiana L’aria della memoria rappresentano un corpus importante nella lirica recente. A rileggerli se ne misurano subito la sostanza e la bellezza. Da giornalista, in un dialogo di un paio d’ore, mi hanno colpito però la sua sostanza umana, la profondità di sguardo sulla realtà, la forza della memoria capace poi di ricostruire mondi attraverso la parola. Tutto con una leggerezza che rimanda a quello splendido titolo di Umberto Saba: «Cose leggere e vaganti». Nell’intervista che si legge qui sotto Loi non si risparmia, sta al gioco. Racconta di una Milano quasi mitica di quand’era ragazzo; ma non si sottrae al confronto necessario con l’oggi, con un luogo di durezze in cui spesso non ritrova gli angoli che ha conosciuto. Abitava in Viale Misurata, la circonvallazione più grigia della città: eppure con uno sguardo interiore che vinceva pure la malattia alla vista di cui soffriva, sapeva riconoscere luoghi incantati, li richiamava alla mente e alla voce. «Fin da ragazzo sono stato uno sventato, per questo non ho paura della morte» mi ha detto Loi rispondendo a una domanda su quel«dopo» che oggi l’ha accolto. Anche questa affermazione su un argomento pesante l’ha fatta con la levità di chi ama talmente la vita da riuscire, con naturalezza, a trasformarla in versi. Che adesso sono il suo tesoro che ci resta. (Mauro Querci, 4 gennaio 2021)

«Sto in ascolto della vita e così nasce la poesia» – Intervista a Franco Loi

Per gentile concessione di Mauro Querci

Per raccontare davvero il mondo, la vita, il dialetto può funzionare anche meglio dell’italiano. A patto di essere un grande poeta in milanese. Capace di mettere in una riga l’essenza della città («Gasometro del ciel, oss de Milan»,“Gasometro del cielo, ossa di Milano»). Oppure, di dire in due versi più di tanta filosofia («Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient / forsi memoria sèm, un buff de l’aria», “Siamo poca cosa, Dio, siamo quasi niente / forse memoria siamo, un soffio d’aria”).
A 87 anni compiuti il 21 gennaio, Franco Loi è il più grande poeta vivente – e non solo in dialetto. Ha attraversato la Guerra, la Ricostruzione, il Miracolo economico. Ha visto Milano trasformarsi da capitale della fabbrica a città post-industriale. Durante l’impiego editoriale («Ventitrè anni di rassegne stampa in Mondadori, cominciando con il fondatore, Arnoldo» ricorda), ha condiviso la stagione dei maggiori scrittori, ha vissuto il tempo in cui sembrava che l’Italia potesse far tutto. Oggi che un disturbo alla vista ha fatto calare una nebbia sulle cose intorno a lui, Franco Loi è tutt’altro che distante dalla realtà. Incontra giovani di scuole e quartieri («Mi piacciono molto, ce ne sono di validi nonostante quel che si dica»). Assiste alla pubblicazione di suoi libri, anche se non riesce quasi più a scrivere («Con quello che esce il 28 gennaio fanno 32 raccolte di versi, più i romanzi, i saggi…», precisa con civetteria). Arrivare fin quassù, al 4° piano della sua casa affacciata sul «canyon» di Viale Misurata, la Circonvallazione di Milano dove il traffico non si ferma mai, è un privilegio. Tra i miagolii del soriano Meo e la cortesia della moglie Silvana («Sposati nel 1960, con tre anni di fidanzamento: sono sessant’anni tondi»), si alterano memorie di luoghi e volti, giudizi precisi sull’attualità, immagini già pronte per una poesia. Loi ha la leggerezza e la sostanza di una bella storia da raccontare.

Perché il dialetto?

Perché è libertà. Ho scritto poesia anche in italiano, ma non funziona allo stesso modo. Poi a 30 anni, era appena morto mio padre, e un giorno mi trovavo a casa da solo: mia moglie era via con la bambina. Hanno cominciato a venirmi in mente questi versi in milanese… Io sono cresciuto tra persone – gli operai, ma anche i ricchi – che parlavano sempre in dialetto. Lingua della vita come la vivi. Non è che ti siedi al tavolino e scrivi quel che vuoi: per me la poesia arriva come in un sogno. Ti metti in ascolto dell’inconscio che parla.

Il quartiere Lorenteggio, via Teodosio, i gasometri… Qual è la sua geografia della città?

Tutto è cominciato dalla camera ammobiliata di quando siamo arrivati con i miei genitori da Genova. Era in via Cardano, zona Stazione centrale. La strada finiva sul fiume, il Seveso, che ancora non era stato «asfaltato». Poi siamo andati a Lambrate, in piazza Bottini. Quindi a Limito, vicino all’Idroscalo. Ho cambiato 11 case nei primi nove anni della mia vita. Con la guerra le persone avevano perso tutto, erano sfollati, si ripartiva da zero. C’era più rispetto per il lavoro degli altri.

Tanta nostalgia?

Non sono un melanconico. Magari passo da qualche strada e mi viene in mente che ci abitava quella persona, che magari è morta. I vecchi sono così… Mi hanno portato all’Isola a vedere il nuovo quartiere. Avevo una fidanzata che abitava accanto alla ferrovia. Dove ora ci sono i grattacieli, ci baciavamo. Tutto cambia.

Tutta un’altra Milano rispetto a oggi.

Non esiste più quella socialità. Sull’altro lato di viale Misurata conoscevo tutti. Ora ci abitano cinesi, filippini, con i quali non riusciamo neanche a comunicare… Resto legato a via Teodosio, al Casoretto. Lì ci sono ancora i negozi, non i supermercati. È una città che parla ancora un po’ in dialetto. Anche quando ci abitavo io la maggioranza erano pugliesi. Eppure parlavano in milanese, lo reinterpretavano, con nuove, bellissime sfumature.

Lei sogna in milanese?

In italiano, perché ha una letteratura che è stata una delle mie grandi passioni. Ultimamente sogno questo giovane in un bel doppiopetto; mi si avvicina e mi dice: «Comprendere e fare». Che vorrà dire? Me lo spiego così: io, che sono sempre stato inetto a lavori manuali, con la malattia, ho imparato a rassettare i letti, a lavare i piatti, fare cose insomma. Usare la testa non basta più.

Nella vita conta più la testa o il corpo?

Il mio amico pittore Renato Birolli è morto facendo l’amore con una prostituta. Lui si faceva prendere dal sesso. Non ne faccio una questione morale, ma era dominato. Quando io ho fatto l’amore senza sentimento, dopo avevo solo voglia di essere lontano cento chilometri. Con molte donne era soltanto desiderio. Le pulsioni sono essenziali nella vita, ma devi saperle controllare.

Lei è sposato da molto tempo.

Non sempre la convivenza è semplice. Nessuno è un genio per la propria moglie, diceva Goncarov. Ma s’impara a convivere con i difetti dell’altro. Io ho ancora impulsi sessuali, nonostante la malattia. È un segnale del corpo e un anziano non deve vergognarsene.

Nella sua raccolta Isman, si rivolge spesso a Dio. Crede?

A modo mio. Dio se ne frega dei comandamenti, dei nostri peccati. Con quelli dobbiamo fare i conti da soli. Noi abbiamo la presunzione di conoscere Dio, dandogli un’immagine. Macché! Per me c’è un grande Spirito che permea tutto, ma di esso non possiamo dire nulla. La teologia è un falso, un’invenzione per tener buoni i popoli. Invece esiste – sono stato messo davanti alla sua evidenza – l’angelo custode. Il mio si chiama Isman. Non è che lo veda, o ci parli. Però c’è.

Una cosa che avrebbe proprio voglia di fare?

Non tuffarmi né correre… Vorrei poter studiare etimologia. Socrate diceva che le parole più antiche sono quelle più vicine alla verità. Purtroppo non posso leggere, perché non ci vedo e quindi ascolto la tv.

E che ne pensa?

Mhm… Prima guardavo solo le partite di calcio. Tifavo Milan. Mi viene rabbia con certi programmi. Ieri, però, un politico ha detto una cosa rivoluzionaria: che bisogna prevenire, non affrontare quello che accade. Altrimenti è troppo tardi. Tra poco, ad esempio, ci troveremo davanti alla fine del lavoro, a causa dell’evoluzione tecnologica. A Milano la classe operaia già non esiste più. Andiamo verso un medioevo prossimo venturo, con la gente costretta a tornare alle campagne.

La politica non può evitarlo?

Marx ha scritto che un politico dovrebbe sempre ascoltare gli artisti perché gli rappresentano la realtà così com’è, a lui che è sempre costretto alle mediazioni. Oggi i politici non ascoltano gli artisti. Sono politicanti. Io ho sempre votato: ma per i referendum, no.

Renzi?

È vanitoso, poco adatto ad afferrare la sostanza della situazione. Evoca le riforme: Napoleone e persino Mussolini sì che le hanno fatte – dare una pensione o la cassa mutua per malattia, mandare via i vecchi generali e sostituirli con i giovani tenenti. Non Renzi.

Grillo?

Non affronta mai i problemi veri. Il cibo che non è sano, la natura violentata, il traffico che domina le città. Che senso ha la politica oggi, quando il potere mondiale è finanziario, quello esercitato dalle banche?

E in tutto questo a cosa serve un poeta?

Sempre alla stessa cosa: si mette in ascolto della vita. Raccoglie suoni, sensazioni, odori, colori, atmosfere. Passiamo senza farci caso davanti agli alberi, ai sassi, alle stelle – che a Milano non si vedono neanche più.

L’ultima poesia che ha scritto?

L’anno scorso, a Ponte di Legno, davanti all’Oglio, il fiume. In dialetto, cominciava così: «La va l’acqua, la va/ e dove la va? Non si sa, / dove la porta il vento». Sul foglio avevo scarabocchiato anche altri versi, ma nessuno dopo li ha saputi interpretare. L’acqua è come la vita…

L’acqua, la vita. Ma «poi»?  

Vede, io non ho paura della morte. Fin da ragazzo sono stato uno sventato. Magari, quando sarà il momento, sapremo tante cose. Fammi restare qua, dico a Dio, finché servo a qualcosa. Poi, basta.

Cambiano le generazioni. Che idea si è fatto dei giovani?

Come sempre, ci sono quelli che hanno voglia di imparare, sapere, capire. Anche ai miei tempi, su trenta ragazzi solo 5 o 6 si interessavano alla cultura, avevano passioni. Ma mi piacciono, i giovani.  Ecco, quel che mi preoccupa è che la gente vive senza fare esperienza della vita. La poesia trasmette sensazioni e ti permette di conoscere te stesso. Che poi è l’unico modo anche di potersi avvicinare agli altri.

 A 87 anni, che effetto le fa Franco Loi?

Uso i versi di una mia poesia. «Io non sono quello che vi sembra e non so chi sono. Sono quello che l’aria mi fa essere». Posso solo dire che sono in cerca della verità.  

(La foto in copertina è di Doppiozero)

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