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INDIE#20: Per amor vostro

“Per amor vostro” racconta di Anna e del suo brancolare e annaspare in una vita avviata allo sfacelo. Tutto ciò con cui entra in contatto è avariato: il nuovo lavoro, il marito, l’amico Ciro, la figlia Santina, l’attore di cui si innamora.  Il suo sforzo sfibrante di tenere insieme le cose non può nulla contro quest’intima contaminazione. Tratteggiare la trama risulterebbe fuorviante; perché l’ambientazione e le vicende – miserie e malavita di una Napoli di periferia – ci porterebbero con la mente proprio a quelle atmosfere neorealistiche da cui questo film si discosta in modo programmatico e veemente. Su questo punto il regista, Giuseppe Gaudino, si esprime con chiarezza:«Questo non è un film con una storia, ma su un sentimento».

Non si può ridurre la figura di Anna a quella di martire santa, di agnello sacrificale. C’è anche questo aspetto, certo. Ma resta il fatto che Anna non ha una fisionomia estatica e contemplativa, non cammina a testa alta incontro alla morte (e non ha, in fin dei conti, tutta questa fretta di morire). Non c’è ieratica rassegnazione nelle sue scelte. Anna è una donna che si dimena in modo forsennato (anche goffo, anche disordinato) per restare a galla, e salvare il salvabile. Attorno a lei si aggira una schiera di uomini che invece rimane nel proprio piccolo – e affoga, nel proprio piccolo – sotto l’insegna del «È cosa è niente». La crociata di Anna è contro la noncuranza, il facile sminuire e far di tutto un niente, una cosuccia di nessuna importanza: ha imparato, nei suoi quarant’anni di angoscia, che questa leggerezza è colpevole perché vessillo sotto cui si mascherano le peggiori atrocità.

«Per me è un film sull’ignavia» – afferma il regista – «Penso a tutti quelli che sono gregari, a quelli che sono abituati a spegnere la parte più coraggiosa di sé, che galleggiano. Il film parla di una donna che risale a fatica dentro la sua capacità di vedere le cose. Ma Anna troverà il suo riscatto, diciamo così, quasi miracoloso».

Il piatto bianconero del presente è a tratti interrotto da inserti che si potrebbero riporre, a piacere, nelle categorie dell’onirico o dello psicotico: l’acqua che invade e gronda dall’autobus che Anna prende ogni giorno per andare al lavoro; i passeggeri che come in trance ripetono parole che sono solo nella sua testa. Il mare, soprattutto il mare. Su cui si affaccia la finestra della sua stanza e che ogni mattina sembra sul punto di sorgere e ingurgitare la città. O i ricordi sovraesposti di lei, bambina, nel riformatorio delle suore, per scontare il reato del fratello; di lei “cosa da niente”, sacrificabile e sacrificata. Se il film parli di un miracolo, come sembrano suggerire le parole del regista, non saprei dirlo. Sicuramente parla di una resistenza.

Nell’ultima parte il film si ingarbuglia, smania in cerca di una conclusione che poi arriva, a stento, un po’ patetica e un po’ grottesca. Due umori, questi, che non rendono giustizia alla tonalità tragica e carica di presagi delle sequenze narrative precedenti. E’ il salto finale, il volo che si conclude su un carretto di materassi e cuscini, il “riscatto miracoloso” a cui si accenna?

Ci siamo appassionati ad Anna perché Anna è, in fondo, l’unico personaggio vero del film: l’unico nei cui occhi possiamo ancora vedere, in trasparenza, qualcosa di noi. O di nostra madre. Un personaggio vero che si muove in una realtà esangue, deforme e lurida nel modo di alcuni personaggi di Bosch o dell’Inferno dantesco. Penso sia questa la potenza del film, al di là di qualche eccesso o sbavatura: il suo avvinghiarci fino alla nausea al delirio di questa realtà, e a tratti, suggerirci, con molta discrezione, che ha qualcosa di simile alla nostra.

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