Cinema

Indie #17 – The Master

di Silvia Piccone
È stato snobbato agli Oscar, ai Golden Globes e ai BAFTA ma ha letteralmente incantato pubblico e critica a Venezia ’69. The Master, l’ultima fatica di Paul Thomas Anderson, in produzione dal 2010 e finalmente – dopo una lunga gestazione – approdata anche sui nostri schermi. Son passati cinque anni dal suo ultimo film e ci si chiedeva quale mai potesse essere la nuova storia raccontata dal giovane regista californiano ormai genio d’America,  fuoriclasse di Hollywood e maestro del cinema iperreale dalla visionaria estetica kubrickiana.

Siamo nel 1950 e Freddie Quell (Joaquin Phoenix), dopo aver combattuto nella Seconda Guerra Mondiale, accusa (un po’ alla Taxi Driver, ma venticinque anni prima e senza Vietnam) evidenti disagi psico-fisici accentuati da un’ossessione sessuale latente e una manifesta tendenza all’alcolismo. In una pallida mattinata post sbronza, Freddie si sveglia a bordo di una nave il cui comandante (Philip Seymour Hoffman) è in procinto di celebrare il matrimonio della figlia. È da tale incontro che nascerà un rapporto simile a una strana forma d’amore morboso, mai dichiarato, assolutamente più che platonico e comunque sessualmente mai allusivo, ai confini tra una relazione professionale medico-paziente e un’amicizia bisognosa d’esser protetta. Il comandante è il Maestro, sedicente filosofo medico a capo di una setta chiamata “La Causa”, intenta a liberare l’umanità dalla negatività del mondo e dalle catene con cui gli uomini stessi imprigionano le proprie esistenze, fino a che non viene donata loro una nuova spiritualità.

Un’ottima storia ben girata, frammentata ed affascinante come solo l’impeccabile tocco di Anderson avrebbe potuto regalarci – e anche se non si assiste più a inquietanti piogge di rane, o armoniche scaraventate su marciapiedi deserti, aleggia nel film un’atmosfera straniante che rimane in bilico tra ciò che ci si aspetta di vedere e ciò che di spaventosamente improvviso potrebbe accadere. Perché le opere di Anderson vanno oltre al film, si dice, e diventano in sala un vero e proprio spettacolo visivo che non viaggia quasi mai di pari passo alla narrazione o al suo significato. Phoenix e Hoffman insieme danno vita ad una coppia del cinema non facilmente dimenticabile – e se il primo sfoggia una recitazione sofferente e ironica a metà tra il Cheyenne di This must be the place e il Mark O’ Brian poeta poliomelitico di The sessions, il secondo si ritrova ancora una volta (la prima in I love Radio Rock) al comando di una nave che lo vede brillare di luce propria e illuminare di conseguenza anche tutto il resto del cast, relegato inevitabilmente in secondo piano.
Ancora una volta (dopo Il Petroliere) Anderson collabora con Jonny Greenwood, chitarrista e tastierista dei Radiohead, per la realizzazione di una colonna sonora delicata e non invadente, giusto accompagnamento al legittimo spaesamento dello spettatore di fronte ad un’opera tanto complessa quanto eccelsa.

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