Cinema

Indie #17 – Killer Joe

di Andrea Viola

Un ritorno forte e spiazzante, quello del maestro di un cinema dal forte senso estetico, capace di descrivere con drammatico cinismo gli aspetti più nascosti e reconditi della mente umana. William Friedkin, giunto alla soglia degli ottant’anni e dopo anni di oblio creativo, torna nel 2011 con Killer Joe, pellicola ispirata ad una pièce teatrale del 1998 del premio Pulitzer Tracy Letts.
Un noir tagliente e grottesco, tanto surreale quanto psicotico, protagonista (insieme a The Master) dell’appuntamento di mercoledì 4 aprile con la rassegna INDIE #17. Ultimo lavoro dell’autore di grandi successi come L’esorcista, Il braccio violento della legge, Vivere e morire a Los Angeles, autentici cult che racchiudono come in uno scrigno la più preziosa essenza del pensiero e della visione cupa e pessimista di un’America “ignorante” e violenta.

Chris Smith (Emile Hirsch), un giovane squattrinato col “sogno” di coltivare la terra, guardare la tv e fumarsi le canne, deve restituire 6.000 dollari che non ha ad un boss della città. Spinto dal terrore di essere ucciso dai suoi scagnozzi viene a sapere che la madre, fuggita da tempo con un altro uomo, ha sottoscritto un’assicurazione sulla vita dal valore di 50.000 dollari. Beneficiaria? La giovane sorella di Chris, Dottie (Juno Temple), una ragazzina che reprime rabbia e sete di vendetta sotto un soffice ed inquietante strato di dolcezza e apparente innocenza. D’accordo con il padre Ansel (Thomas Haden Church), inetto e svuotato da ogni forma di umano sentimento, i due fratelli decidono di assoldare Joe Cooper (Matthew McConaughey), un sicario che avrà il compito di uccidere la madre di Chris facendo apparire il tutto come un drammatico incidente e garantendo la riscossione dell’assicurazione. Ma Joe, senza anticipo, non vuole agire: e allora, quale caparra più dolce e invitante della vulnerabile e vergine Dotty?
Protagonista è l’America delle cittadine rurali dal sapore tremendamente “far West”, dove la polvere e gli stivali da cow boy sono retaggi di un passato solo apparentemente lontano: un passato in cui la violenza, il desiderio di vendetta e di farsi giustizia da soli sono frammenti di una realtà ancora vivida e penetrante. Il mondo dipinto da Friedkin – come già ampiamente sottolineato dalla critica – ha un retrogusto tarantiniano in quello che appare come un travolgente mix di violenza tanto cruda quanto irriverente, con quello splatter così orgogliosamente esibito e sbattuto in faccia allo spettatore che, tra il divertito e l’inorridito, assiste alle vicende di un microcosmo totalmente allo sbando dal punto di vista morale.
In un mondo in cui non si salva nessuno, fatto di perdenti senza speranza di rivalsa alcuna, Friedkin riesce ad esplorare con morbosa e chirurgica ossessività la doppia anima che vive in ognuna delle sue pedine. Pensiamo a Chris: cinico e sconclusionato pusher che arriva ad assoldare un killer per l’assassinio della madre – eppure protettivo nei confronti della sorella a tal punto da rischiare la vita per lei. Pensiamo a Ansel: favoloso prototipo di quell’America inconsapevole di vivere, pigramente adagiata sulla poltrona con una birra ghiacciata in una mano e nell’altra il telecomando, capace di trascorrere ore di ipnosi davanti agli show-trucks americani in tv. Solo il profumo dei dollari arriva a risvegliare gli istinti più crudi e nascosti, annullando anche il già discutibile legame padre-figlio.
Ma se di ambivalenza dobbiamo parlare, Joe e Dottie incarnano l’essenza dell’ambiguità. Un killer cupo e tenebroso da un lato, con  «uno sguardo che fa male», così gentleman e rassicurante da risultare disturbante, così violento e perverso da sembrare irreale; una Cenerentola da horror-movie dall’altro, inquietante nel suo candore, spiazzante nella sua lucida consapevolezza, vittima e carnefice in un vortice di cinismo dal quale cerca di sottrarsi rifugiandosi in una dimensione tanto fiabesca quanto lucida e razionale.
La storia corre con la frenesia di un treno sui binari del sangue, del doppio gioco, della tensione erotica e dell’irriverente nichilismo, fino a un epilogo finale apocalittico e sconvolgente. Una detonazione che, tra fellatio con cosce di pollo e rivelazioni scioccanti, fa esplodere in tutta la sua violenza l’odio e gli istinti repressi all’interno della famiglia Smith – che, di tale istituzione, non ha nulla se non un valore puramente formale.

Friedkin racconta un mondo di degrado e marginalizzazione, in cui la differenza tra bene e male sembra essersi estinta. Pura finzione o amara realtà?

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