Letteratura

Incontro con Fabio Pusterla – racconti autobiografici

La scorsa settimana ho avuto l’opportunità di pranzare, presso l’Osteria alle Carceri, con Fabio Pusterla, poeta, traduttore, professore e critico letterario, che si trovava a Pavia in occasione della presentazione del libro La poesia e il mistero di Elisabetta Motta.

Nato nel 1957 a Mendrisio, nella Svizzera italiana, si è laureato in Lettere moderne all’Università di Pavia.

Ricordo quello trascorso a Pavia come un periodo molto intenso. Da un lato erano anni tormentosi e agitatissimi (era la fine degli anni ’70), anche per via di tutta la deriva terroristica, dall’altro lato erano per me quelli di un’esperienza che è quella della vita improvvisamente altra, con gli amici, fuori casa, con una sua fortissima intensità.

Forse non ho scelto di studiare a Pavia per le buone ragioni che avrei dovuto avere per farlo. L’ho scelta su consiglio di un mio insegnante, Giovanni Orelli, ma soprattutto preoccupato dal fatto che all’ultimo anno di liceo stavo con una ragazza, un po’ più piccola di me, e quindi Pavia era abbastanza vicina per tornare a trovarla, salvo che poi non ho dovuto farlo perché lei mi ha piantato durante l’estate. Quindi la cosa è caduta e allora improvvisamente Pavia è diventata tutt’altro, adagio adagio ho capito perché Orelli me l’avesse suggerita. Presso la scuola pavese c’erano insegnanti del calibro di Maria Corti, Cesare Segre, Dante Isella, Cesare Bozzetti.

Ma andare a studiare letteratura era stata una decisione dell’ultimo momento, io avevo in mente tutt’altro. Volevo fare prima il matematico, poi l’ingegnere forestale, poi, negli ultimi anni di liceo, ero assolutamente sicuro di voler fare l’assistente sociale. Per capire tutto questo bisogna anche pensare a quegli anni fortemente politicizzati in cui a me e a quelli come me sembrava che la letteratura non avesse più un gran senso, bisognava fare altro. C’era un mio amico, però, al liceo, che continuava a dirmi: “Guarda che ti sbagli, tu devi andare a fare lettere, perché tu scrivi”, e io gli rispondevo: “Non dire sciocchezze, la poesia è morta, non interessa più”. Per finire, a un mese dagli esami di maturità, questo amico mi ha tirato un pugno, fortissimo. Eravamo sul lungolago a Lugano, sul mezzogiorno, sono caduto giù dove ci sono i pedalò e ho detto a me stesso: “se il tuo migliore amico ti prende a pugni, forse ha ragione lui”.

Quindi ho deciso per letteratura, naturalmente riconoscendo improvvisamente in me quello che volevo fare, che mi ero negato. Ma l’impatto con l’università non ha prodotto inizialmente quello che io pensavo: ho smesso di scrivere. Perché quello che io credevo fosse la scrittura, cioè quella forma di scrittura molto ingenua, non c’entrava nulla con quello che facevamo a lezione, che io seguivo – mi sembrava senza capire un granché – e qualche volta saltavo. E a un certo punto, ricordo, che a una lezione di Luigi Poma – che teneva il corso di Letteratura italiana 1, un corso molto filologico – mi si avvicinò un compagno, si chiamava Mauro, e mi disse con aria seria: “io ho capito chi sei, te sei uno come me che non finirà mai l’università”. Io ho avuto la sensazione di essere radiografato e ho pensato che avesse ragione lui. In effetti il primo anno e mezzo io ho fatto ben poco, e poi avevo incontrato un professore che trovavo molto affascinante, perché in questo mondo molto filologico lui era l’uomo fuori dal cavagno, si chiamava Sisto della Palma, insegnava storia del teatro, e durante una delle prime lezioni ci ha guardato e ci ha detto: “Cosa ci fate voi qui? Credete di essere all’università, ma l’università vera è altrove, è nelle osterie” (e io l’ho preso più o meno alla lettera).

Poi è successa una cosa. In questo mondo studentesco molto anticonvenzionale, una nostra amica una sera venne a trovarci e ci annunciò che si stava per sposare, che si doveva sposare. Era rimasta incinta e il peso delle famiglie era tale per cui dovesse farlo. Chiese a Claudia, una di noi, di farle da testimone, e a me di fare il fotografo. In una situazione che ci sembrava così assurda abbiamo deciso, dopo un po’, che avremmo fatto – come per fare uno scherzo amichevole, visto che la mettevano giù così dura con questo matrimonio – quello che si faceva una volta per i matrimoni, cioè una plaquette di poesie in nozze. Io le avrei scritte, Claudia le avrebbe sistemate graficamente e il bidello dell’università avrebbe preparato il fascicoletto. Così l’abbiamo fatto e andò bene, nessuno capì che era uno scherzo, e proprio perché sembrava trattarsi di un gioco io lì ho ripreso a scrivere, e poi non ho più smesso.

Poi, durante un esame sulla Scapigliatura, Maria Corti, mentre io sciorinavo quello che dovevo, mi chiese: “ma tu scrivi?”, io le risposi che sì, scrivevo, un pochino, e quando lei mi chiese perché non le avessi portato niente da leggere le dissi che non avevo osato. Mi disse che stavo sbagliando, di portarle qualcosa il giorno dopo. Allora le ho portato questa piccola plaquette e poi, per due settimane, non ho dormito la notte. Quando mi convocò mi disse che la mano c’era, ma che dovevo svegliarmi, sembrava scritto cinquant’anni prima, dovevo leggere quello che si faceva di nuovo. Io le chiesi da dove potessi cominciare, allora lei si è come addolcita e mi ha detto di andare a casa sua il giorno dopo che mi avrebbe dato un po’ di libri. Così è stato ed io, affannosamente, mi sono messo a leggere tutto quello che potevo.

Ricordo poi quando era stato invitato a Pavia un poeta che allora era sulla cresta dell’onda e si dava un po’ tante arie. Eravamo nella sala di un collegio e lui aveva esordito in maniera molto retorica, in piedi, dicendo una cosa e ignorando che dicendo quella cosa pronunciava una parola che a Pavia, scherzosamente, era considerata un tabù, cioè il nome di Torquato Tasso. Non bisognava dire mai il suo nome, portava sfortuna, tutti i professori pavesi che si erano occupati del Tasso avevano avuto grandi traversie, era una delle piccole leggende pavesi. E questo poeta ha esordito, con voce molto impostata: “Cos’è il tempo? Per un poeta il tempo non esiste, e io posso sentirmi contemporaneo del Tasso”, e allora c’è stata una risata omerica che naturalmente l’ha spiazzato, forse ancora oggi ci si chiede perché tutti abbiano riso. E lì ho pensato che, ecco, improvvisamente, in quella risata, che toglieva tutta la maschera retorica, io ritrovavo tanto quello che avrei voluto essere capace di fare con le parole, quanto l’insegnamento di questi anni di filologia, anche molto faticosa, ma che in fondo arrivava a dire che no, le cose sono più complicate.”

Oggi Pusterla vive ad Albogasio, sulla frontiera tra Italia e Svizzera, e insegna al Liceo Cantonale di Lugano 1 e all’Università della Svizzera italiana.

È un lavoro che mi piace molto, devo ammettere, proprio tanto. L’ho scelto o sono stato scelto, come sempre è difficile dirlo, non credo che quando ho finito gli studi ci fossero moltissime alternative alla professione dell’insegnamento, ma è anche vero che non ne ho cercata neanche mezza, perché a me piaceva l’idea di insegnare, mi è sempre piaciuta e, tutto sommato, non sempre, non in tutto, ma a me era piaciuta la scuola. In più in quegli anni credo di poter dire di aver visto una scuola che non volevo assolutamente che continuasse ad esistere e di aver partecipato a una specie di grande sogno collettivo che, forse, si prefiggeva di cambiare il mondo – e non c’è riuscito – ma almeno di cambiare la scuola sì. Allora andare a insegnare non sembrava affatto a me un ripiego, mi sembrava di affrontare una cosa importante. In più è un tipo di professione in cui le cose che maggiormente mi piacevano, cioè leggere e, possibilmente, scrivere, avevano non solo la possibilità di esistere ma quasi dovevano esserci. Certo, devo aggiungere subito che per qualche mese forse ho sentito anche io una cosa che alcuni miei compagni pavesi hanno sentito drammaticamente, e cioè che l’università di Pavia di allora, proprio per l’altezza degli insegnanti che avevamo di fronte, senza mai dircelo in maniera esplicita, ci spingeva a sentire quasi in ogni molecola che non ci stessero certamente formando per andare a insegnare nelle scuole medie o medio superiori. Salvo che poi l’eventuale sbocco accademico non esisteva già allora o era difficilissimo. Su parecchie persone che poi ho conosciuto anche come colleghi a scuola questo imprinting pavese ha avuto anche dei risvolti problematici e ha creato, forse, qualche insegnante di liceo scontento del suo mestiere.

Chiedo a Pusterla quali siano, secondo lui, le caratteristiche necessarie per essere un buon insegnante. Lui trova che non si possa rispondere in assoluto, ma che certamente a un insegnante devono piacere moltissimo due cose:

Una è la materia che insegna: o c’è una passione forte, in grado anche di rimanere viva nonostante l’usura degli anni, oppure gli studenti ben presto si accorgono che quello che hanno di fronte magari sa anche tante cose, ma non ci crede. Il secondo elemento sono gli studenti. Se non ti piace quella fascia d’età, con tutte le sue contraddizioni, imperfezioni, anche fastidiose, allora il lavoro diventa quasi impossibile. Infine, ma questo appartiene un po’ al primo elemento di cui ho parlato, a me piace moltissimo insegnare e credo di essere un discreto insegnante soprattutto anche perché ho sempre fatto altro, ho continuato a ricavarmi il mio spazio per studiare, leggere e scrivere.

Il mestiere dell’insegnamento richiede uno studio e un allargamento continuo del patrimonio di conoscenze, chiedo a Pusterla quali siano state però le letture fondamentali della sua formazione, degli inizi.

Dylan Thomas è forse il primo che ho letto per i fatti miei e solo perché avevo saputo che Bob Dylan aveva scelto questo pseudonimo in suo onore. Era un poeta stranissimo, morto molto giovane sostanzialmente di alcolismo, che scriveva una poesia molto visionaria e analogica. Poi c’è stato Baudelaire, e con lui Rimbaud. E per quanto riguarda l’Italia forse il primo che mi ha fatto profondamente impressione è stato Leopardi, seguito, andando all’indietro, da quello che è diventato poi il più importante di tutti per me e per tutti noi: Dante, e venendo in avanti credo di dover nominare prima di tutto Montale. Poi le cose sono cambiate e naturalmente ho cominciato a diventare uno che ci viveva in questa faccenda, quindi ho letto tutto il leggibile. E dentro a queste letture, che durano ancora oggi, certamente il nome di Philippe Jaccottet occupa un posto particolare, da un lato perché mi aveva colpito tantissimo quando lo avevo cominciato a leggere, e poi mi è piaciuto così tanto che l’ho tradotto, e in fondo non ho più più smesso.

 

Da PHILIPPE JACCOTTET, Il Barbagianni. L’Ignorante, trad. di F.Pusterla, Torino, Einaudi, 1992

Portovenere

La mer est de nouveau oscure. Tu comprends,

c’est la dernière nuit. Mais qui vais-je appelant?

Hors l’écho, je ne parle à persone, à persone.

Où s’écroulent les rocs, la mer est noire, et tonne

dans sa cloche de pluie. Une chauve-souris

cogne aux barreaux de l’air d’un vol comme surpris,

tous ces jours sono perdus, déchirés par ses ailes

noires, la majesté de ces eaux trop fidéles

me lasse froid, puisque je ne parle toujours

ni à toi, ni à rien. Qu’il sombrent, ces “beaux jours”!

Je pars, je continue à vieillir, peu m’importe,

sur qui s’en va la mer saura claquer la porte.

 

Portovenere

Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,

è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno

parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.

Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba

in una campana di pioggia. Un pipistrello

urta come stupito sbarre d’aria,

e tutti questi giorni sono persi, lacerati

dalle sue ali nere, a questa gloria

d’acque fedeli resto indifferente,

se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano

questi “bei giorni”! Parto, invecchio, che importa,

il mare dietro a chi va sbatte la porta.

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