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Incontri di poeti – Stefano Carrai

Ai poeti non resta da fare che la poesia onesta. Nel 1911 con queste parole Saba esprimeva la sua idea di poesia, il suo modo di intendere quello strumento che permette di recuperare una verità che giace al fondo. Oggi non tocca parlar di Umberto Saba ma di uno dei suoi massimi studiosi e appassionati: Stefano Carrai.

Stefano Carrai è nato a Firenze nel 1955. È professore ordinario di Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Siena. Ha insegnato, a vario titolo, nelle Università di Trento, Leida, Ginevra e Nancy. Tra i suoi libri ricordiamo per esempio Dante elegiaco. Una chiave di lettura per la «Vita nova», 2006; Il caso clinico di Zeno e altri studi di filologia e critica sveviana, 2010. Ma Carrai è anche poeta, e il 23 aprile 2018 ha presentato presso il Collegio Borromeo di Pavia l’ultimo suo libro: La traversata del Gobi, ed. Nino Aragno, 2017. In dialogo con Rossano Pestarino, docente dell’Università di Pavia, anche egli poeta.

CarraiLa sua prima raccolta di liriche Il tempo che non muore (ed. Interlinea, 2012) segna l’avvio di un percorso in cui la poesia arriva ad assumere un ruolo di primo piano nella vita dell’autore. Da allora la penna non si è più fermata è ha continuato ad imprimere i suoi segni sulla carta. Fermare un’emozione, la rappresentazione di un mondo di valori personali, sondare con la parola l’insondabile (parole di Carrai), è anzitutto questo che si cela dietro la genesi di ogni lirica, la quale è messa in dialogo con le altre attraverso un sistema di rimandi tematici che unisce anche le varie sezioni in un’unita di fondo che rimanda subito all’idea di un canzoniere, e quindi a Saba, e quindi a Petrarca.

IMG_20180522_121608 2Pestarino mette subito in luce un interrogativo che sorge spontaneo di fronte ad una simile organizzazione e di fronte al testo (In chiave) posto a proemio della raccolta La traversata: Petrarca e la struttura di un canzoniere sono qui negati o superati e soprattutto è ancora possibile nella modernità proporre un canzoniere alla sua maniera? Ammette Carrai che non è stato fatto un progetto unitario (in fondo era così anche per Petrarca) a priori, ma la struttura si è manifestata nel momento in cui è stato necessario montare il libro; infatti, In chiave non è un prologo programmatico, si è rivelato come tale, in un sorta di epifania, solo successivamente. Siamo dunque di fronte ad una ad una poesia oggettivata, cioè ad una poesia che parla al suo autore nelle vesti di un organismo autonomo e che dice quel che anche lui vuole. Come tale la poesia non può essere collocata in un insieme vago pur nascendo alla spicciola da un sentimento spontaneo. É, dunque, possibile costruire un canzoniere alla Petrarca nella modernità (e qui Carrai si colloca nello stesso solco di Saba) purché si crei un unità di cocci e non un semplice gioco di flash, per raccontare oggi una storia in frammenti. Tuttavia questi si presentano piuttosto come brandelli perché la modernità è più lacerante rispetto al passato: serve dunque un mago / della sutura (vv. 6 e 7), figura centrale nella lirica In chiave.

I temi della raccolta sono quelli classici, perché su di essi pesa maggiormente lo sguardo indagatore dell’uomo: la riflessione sulla vita e sulla morte, la presenza della figura paterna, la ricerca di un senso nella “Storia”, la riflessione sul tempo. Proprio quest’ultima, nota Pestarino, appare folgorante, riempie di sé molte liriche al punto da tornare insistentemente attraverso espressioni quali le ore che spariscono, gola del Tempo-Minotauro (v. 4 e v. 8 da Elegietta dei banchi), L’ora che si fa sempre più incerta, Non fa in tempo a rispondere (Sogno v. 1 e v. 28) e ancora tempo che non fa duplicati (Alba v. 5), Non si corregge il Tempo (Un amore in Bassa Franconia v. 1).

Non manca una riflessione sul proprio modo di far poesia. La sezione Il fiore in bocca in tal senso è illuminante: formata da una sola lirica, diviene il luogo privilegiato in cui far metapoesia. Non che manchino altre liriche nelle quali il poeta si spinga alquanto a riflettere intorno al proprio modo di poetare come, ad esempio, in Riflessivo. Ma mai come in altri loci l’oggetto privilegiato intorno a cui muoversi diviene la lingua medesima e il modo di strutturarla in voce lirica. E qui il poeta parla di una lingua che è la sua (La lingua / la mia lingua […] vv 1 e 2) e che dunque si connota di un soggettivismo molto forte perché è impiega per restituire una dimensione biografica (lingua / che dà una forma all’essere vv.75 e 76) carica di problematicità (rissa perenne tra un fondo d’infanzia / vernacolare e le troppe / sovrastrutture e superfetazioni vv. 8-10) che trova spazio sulla carta attraverso l’impiego del verso a scalino (segnando coi gradini /le battute nella mia partitura vv. 32 e 33).

La dimensione biografica correrebbe il rischio di diventare eccessivamente dominante, suonando quasi egocentrica se non venisse impiegata un’ironia che smorza i toni senza rendere il senso finale più leggero: il patetico è evitato, ma non l’intenso sentire di un’anima. Carrai nella sua raccolta trasforma la sua esperienza individuale in un’esperienza collettiva sicché nel vissuto di un’anima si riflette quello dell’umanità e lo scavo nel proprio io rimane costanze senza diventare destabilizzante o egocentrico. Ricordiamo a proposito la sezione Da una campagna di scavo, una sorta di poemetto in otto parti, dove lo scavo viene ad interessare una dimensione interiore (quella del singolo, di Carrai), archeologica (nella ricerca di una dimensione di “Storia collettiva”) e umana (la figura del poeta non compare in queste liriche, ma la si averte nelle vesti di voce narrante pronta a cogliere frammenti di esistenza ed esistenze).

Il viaggio in cui Carrai ci accompagna comincia in vero già dal titolo della sua raccolta (La traversata del Gobi) dove compare un termine cardine IMG_20180522_123301per l’interpretazione delle liriche: traversata. In questo modo il poeta ci chiede di vedere la sua raccolta, come un lungo viaggio in un deserto che non è un luogo fisico (l’autore non è mai stato nel Gobi!), ma spazio in cui si muove l’uomo, sia nella sua dimensione collettiva di ‘noi’ (l’esperienza del singolo come esperienza di e per molti), sia nella sua dimensione di singolo individuo che dice ‘io’, Stefano Carrai. E alla fine della raccolta, della “traversata” ci viene consegnata la speranza di una persona la quale immagina di fronte a sé il giorno in cui il suo faticoso lavoro darà frutti, un piccolo perno doro che brilla / un estremo segnale / di ciò che è stato (Morgue vv. 8-10) l’autore di questi versi che conclude ponendo a sigillo del suo libro la propria firma:«stefanocarrai».

Tommaso Romano

Redattore per «Inchiostro». Studente di «Antichità Classiche e Orientali» presso l’Università di Pavia, è appassionato di troppa roba. Cento ne pensa, cento ne fa, cento ne scrive (o vorrebbe).

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