Concorsi

Inchiostro a volontà 2017: “Io sono Kasahara May”

di Debora Borgognoni

 

Come si sta laggiù, Signor Uccello-Giraviti? Mi verrebbe da chiederlo, ma temo che lui possa prenderla come una sottile, sadica derisione. In fondo ce l’ho chiuso io, lì dentro il pozzo. Eppure, eppure…

Eppure a me interessa sapere, non è che una che vive in un romanzo e si chiama Kasahara May – ma lo sentite che suono? Kasahara May. Fa venire voglia di scoprire com’è fatta la consistenza di un nucleo – possa essere tanto banale da chiudere un uomo dentro un pozzo per puro divertimento, o bullismo, come dicono quegli stupidi esseri insignificanti che frequentano la scuola superiore di Tokyo insieme a me. Una che vive in un romanzo e si chiama Kasahara May come minimo è spinta da un moto di onnipotenza. Ma non fatemi confondere, voi lettori. Io sono Kasahara May, ed esisto, vivo per davvero, e chissenefrega se Murakami Haruki mi ha inventata e a un certo punto mi ha buttata fra le pagine di un capolavoro letterario. Che poi, a dirla tutta, mi ha scoperta Okada Toru: attraverso lui, seguendo il filo della sua curiosità, di quell’adulto mica tutto normale, io ho man mano preso forma, le mie ossa si sono allungate, mi sono accorta di avere una gamba dolorante, ed ecco, zoppico, e ho una cicatrice che mi segna il volto. Ma sono carina, dice, col mio zainetto pieno di sogni non ancora aperti e che io voglio lasciare lì ancora un po’, in attesa che siano più grandi, più formati. Più pronti all’uso.

Ho diciassette anni, non lo sapevo fino a pochi istanti fa, l’ho detto, sto nascendo, crescendo e sentendo il mondo insieme a voi, lettori. Ma io so di esistere. Questo spazio intorno a me è energia, quell’orizzonte là, lontano, è vita. E quell’uomo che io ho ribattezzato Signor Uccello-Giraviti, quello che ha voluto a tutti i costi entrare in un pozzo per capire il senso della mancanza, e che io ho chiuso con una botola perché volevo provare il senso della morte, lui è Okada Toru.

Ora c’è da stabilire solo cosa io sia stata chiamata a raccontarvi. Facciamo due calcoli. Se io esisto per davvero, come una sorta di spin-off impazzito che dalle pagine di un romanzo è andato a formarsi fino a prendere fattezze umane, dovrò raccontarvi almeno cosa vedo intorno a me. Che poi, diciamocela tutta, io potrei anche essere un ologramma ben fatto, e avere semplicemente la percezione di essere in carne e ossa. Fatemi toccare il petto e vi dirò subito se ho un cuore che batte.

Ma in fondo a voi che importa? Vi racconterò il mio mondo e deciderete se concedere al mio ricordo una vita o una morte. Non si fa così anche con le persone vere? Vivono finché lo volete, poi cominciano pian piano a morire. Allora i colori stingono, il particolare del volto che avevate notato solo dopo un po’, diventa invisibile; e così quel neo sulla palpebra non c’è più, il capello bianco è stato sradicato, il piccolo tic della mano che faceva sempre quando raccontava una sciocchezza è diventato un movimento fluido, e i sussurri prendono il timbro di quell’attore degli spot tv, e gli angoli della bocca sono sempre all’insù, che ridono, o sono solo linee di una maschera di cera. Il profumo, poi, quello è il primo a essere chiuso in una bolla e a essere spinto dal soffio dei ricordi. Ci verrà in mente in un attimo, chissà quando, chissà perché, e ci sembrerà uno stonato déjà-vu, una vita ancestrale che torna a infastidirci o a salvarci. Ecco cosa sarò io tra un po’, quando rientrerò quatta quatta tra le seicento pagine del romanzo di uno scrittore giapponese che ogni anno sta lì lì per vincere il Nobel e, pouff, qualcuno glielo soffia da sotto il naso. E a pensarci mi sento anche un po’ responsabile per questo, siamo tutti responsabili, noi personaggi di romanzi. Perché scappiamo, sfuggiamo tra le pieghe della carta, ci facciamo un giro di mondo, non siamo mai soddisfatti di questa nostra porzione di realtà. Gli scrittori, i nostri padri, stanno lì a dire a tutti che un personaggio vive solo dentro le parole, che ha un proprio odore, un proprio destino, un proprio cuore unicamente all’interno delle maglie strette della pagina. E invece no, noi percorriamo ogni linea come fosse un piccolo fiume che ci trascina inesorabilmente incontro all’oceano. Navighiamo, sbattiamo da una riva all’altra, ci rimettiamo ritti, affondiamo e ritorniamo a galla. Piccole tragedie invisibili, direte voi. E allora perché ogni volta che riprendete in mano un libro, che tornate a quel punto X, avete la sensazione che tutto sia cambiato? Che il personaggio sia più maturo, abbia visto cose, abbia conosciuto un poco più il dolore?

Per ora, intorno a me vedo una città buia come un pozzo. C’è una strada, lì avanti, prosegue fino a un muretto. Il muretto la chiude e ciò che c’è di là io non l’ho mai visto. Oltre quella strada non ci sono mai andata. Sono passata per destra, per sinistra, indietro, ma là davanti mai. Il Signor Uccello-Giraviti arriva da lì, ha scavalcato il muretto per cercare un gatto, ed era convinto che se avesse trovato il gatto, avrebbe riavuto anche sua moglie. È strano che i tentativi falliti di ritrovarla l’abbiano poi portato dentro un pozzo.

Il Signor Uccello-Giraviti avrà già capito che lì sotto o qua in alto non cambia molto. Questa notte riuscirà forse a vedere anche le stelle. Avrà stabilito che la decisione spetta solo a lui, che la strada è lì davanti e che deve solo imboccarla, fare il primo passo con il piede destro, e poi muovere il sinistro, e così via. L’immobilità può essere utile, però. Il nulla può solo riempirsi, e da un pozzo si può solo risalire.

Faccio un passo con il piede destro, e poi muovo il sinistro, la gamba mi fa male, zoppico, ma continuo. Saranno i fiori di brassica marciti a farmi entrare nelle narici questo odore di terra bagnata e zuccherata, a succhiare lentamente anidride carbonica, a saturare la mia aria, la quantità a me riservata di ossigeno e azoto. Saranno i colori autunnali rosso-arancio-verde scuro-giallo a trasformare il cielo in una nube grigio-tomba, e le azalee non possono nulla contro la tristezza che emanano i rami di ciliegio spogliati della loro bellezza, poveri come me e come le staccionate sbilenche che attraverso man mano che i miei piedi non seguono più i miei diretti comandi. Cammino, lettori, cammino sul selciato impregnato di umido e lordura metropolitana, e muovo sassolini che nessuno avrà mai guardato. Quello ha la forma di un osso, quell’altro lì sembra un diamante, l’altro un cuore crepato. Le case hanno tapparelle chiuse, campanelli e cassette della posta con sopra un nome. Un nome può essere già un indizio, un campanello e una tapparella chiusa, una storia. Lì dentro qualcuno cercherà una via di fuga, un sollievo momentaneo, una lattina di birra, un bicchiere di oceano. Nessuno di quei nomi saprà che Kasahara May sta camminando sulla loro strada.

Io sono Kasahara May e non so cosa ne sarà di me appena poserete il foglio, o spegnerete il PC, o chiuderete quel turbinio di universi e luci e anime che è un romanzo. Intanto fuggo oltre il muretto, lo scavalco e sbircio il mondo là fuori. Voi non ci pensate, ché il Signor Uccello-Giraviti se la caverà. Ma questo lo scoprirete da soli.

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