Attualità

Intervista a Matteo Marani

di Stefano Sette

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In Italia, a differenza degli altri Paesi europei in cui si è evoluto il calcio, manca una vera e propria storicizzazione di questo sport. Mentre in Francia e in Spagna il calcio è studiato attraverso scritti di storici o frammenti audio, in Italia c’è poco o nulla, se non per l’ultimo ventennio scorso. Matteo Marani, direttore del “Guerin sportivo” e autore del libro “Dallo scudetto ad Auschwitz” ci ha spiegato perché esistono queste differenze tra il nostro Paese e il resto d’Europa, oltre a giustificare il motivo per cui negli stadi italiani c’è sempre meno pubblico.

Inchiostro: Si è parlato di storicizzazione del calcio in Italia: la sua assenza è dovuta al fatto che il Fascismo va rinnegato per ciò che rappresenta (e sotto questo regime lo sport era fondamentale) oppure è dovuta ad altri motivi?

Matteo Marani:Credo che il primo motivo sia quello. Lo notiamo se facciamo un breve excursus storico: nel Dopoguerra il calcio viene visto come uno strumento per stato fascista. In un’Italia che voleva cancellare quella pagina, la risposta fu quella di rimuovere lo studio storico del calcio, non il calcio in quanto tale, che comunque rimane un fenomeno di seguito popolare. Poi credo che nella seconda parte ci sia un problema di storia sociale: mentre essa si è sviluppata in altri Paesi (soprattutto in Francia) e c’è stata attenzione ai fenomeni sociali di costume, tra cui il calcio, in Italia si è rimasti ancorati ad una storia più politica o economica, non culturale, e questo credo che abbia segnato il ritardo. Per esempio oggi il più importante storico sul calcio si chiama Pierre Lanfranchi ed è un francese, in Italia abbiamo poco o nulla. Credo che ciò sia determinato da queste due scelte.
Secondo lei, “La Gazzetta dello Sport” ha aperto le porte a questo excursus storico? Per il prossimo Mondiale, il quotidiano rosa si è a lungo dedicato a studiare la parabola esistenziale di Nelson Mandela.

Non vorrei creare un equivoco. Quando parlo di storiografia intendo storiografia vera, quella in cui gli storici cercano le fonti per scrivere la storia del calcio, non quella che fanno i giornali. Ora le fonti non ci sono più, non c’è più niente. Per esempio non esistono archivi fotografici veri e propri. Quei pochi esistenti derivano dal collezionismo di qualcuno, che li ha raccolti e messi insieme, oppure sono in qualche scantinato. Non c’è una storia della fotografia e non esiste una registrazione delle voci del calcio dei protagonisti degli anni’30. Non esiste una voce di Meazza o di Schiaffino e trovo che sia una cosa abbastanza bizzarra. Le nuove tecnologie aiuteranno i ricercatori del domani a ricostruire il calcio di oggi, però per il passato manca tantissimo.


Per il nostro giornale abbiamo trattato la recensione del libro “Dallo scudetto ad Auschwitz” in cui lei parla di ricerca storica. C’è un’Appendice abbastanza ampia in cui lei parla di come sia faticoso trovare le fonti.

Sono stato nel dubbio se farlo o meno, poi alla fine ho deciso di pubblicare questo capitolo per raccontare la difficoltà di fare una ricerca storica applicata a un personaggio del calcio. Quando ho cominciato a scrivere il libro, mi ero illuso che le società di calcio avessero qualcosa. Le risposte che mi son sentito dare sono state le più bizzarre: “Non abbiamo niente prima del 2000!” e questo vale per società che esistono da inizio Novecento (ad esempio, il Bologna esiste dal 1909). Se si vuole fare una ricerca nei club italiani scopriremmo che non ci sono più trofei, perché sono stati venduti o rubati, mentre in Spagna ci sono i musei con le coppe, come quelli del Barcellona e dell’Atletico Madrid. Da noi sono lasciati a qualche collezionista che ha il pallino del calcio, ma che in genere tende a non far vedere le cose che possiede. In ogni caso, ai giornalisti tocca fare una ricerca storiografica che spetterebbe agli storici.

Parlando di stadi italiani e di scarsità di spettatori in Italia. Lei pensa che ciò sia dovuto a un senso di pericolo provocato dalle tifoserie?

Non sono d’accordo. Quando ci sono stati i più cruenti episodi di violenza essi coincidevano con gli stadi pieni. Credo che quello della violenza sia un alibi. Dal 1997 è entrata in scena la pay per-view, cioè la possibilità di guardare le partite in diretta da casa, e questo ha svuotato gli impianti, anche perché non è stata fatta una politica alternativa per gli stadi. A quel punto, con la televisione, che ti dava tutto in tempo reale, ti rendevi conto quanto fossero impraticabili gli stadi.
In occasione di Italia 1990, si sprecò una buona occasione per ristrutturare al meglio gli stadi.
Lì purtroppo è stato fatto un lavoro all’italiana, in un periodo storica sfavorevole. Fino ai primissimi anni’90 si pensava al grande catino, che il calcio fosse il fenomeno di decine e decine di migliaia di persone: c’è stato l’ingrandirsi dell’Olimpico, del San Paolo, e la costruzione del terzo anello di San Siro su modello del Maracana. In realtà stava arrivando la televisione, che avrebbe cambiato il modo di fare spettacolo, e allora gli Inglesi hanno colto questo aspetto e hanno fatto impianti molto modellati, che partivano più avanti rispetto ai nostri perché non hanno piste di atletica, e li hanno fatti più adeguati rispetto alle esigenze televisive, mentre noi abbiamo ancora l’idea di stadio pre-diretta televisiva.

Passando ad un argomento più tecnico, il fatto che quest’anno le semifinaliste di Coppa dei Campioni siano di quattro Paesi diversi, a differenza delle ultime edizioni, è solo una fatto casuale oppure è un riequilibrio che può verificarsi anche nel prossimo biennio?

Sono mancate le squadre inglesi: il Chelsea è uscito perché l’Inter ha giocato un’ottima partita a Stanform Bridge, il Manchester United, oltre alle cessioni estive, ha dovuto fare a meno di Rooney che non era al 100%, ed è stato sfortunato. Il calcio inglese è quello più organizzato a livello economico e tecnico, anche se la favorita resta sempre il Barcellona.

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