CulturaIntervisteLetteratura

Inchiostro al Salone del libro 2018 #1: Alessandro D’Avenia dialoga con Andrea Marcolongo

Sala Gialla del Salone Internazionale del libro città di Torino 2018. Ore 12.00. Una fila lunghissima attende Alessandro D’Avenia e Andrea Marcolongo tracciare la rotta degli argonauti nella vita quotidiana di ognuno di noi. Un brusio incalzante accompagna i minuti d’attesa. La sala è gremita. Il brusio persiste, fino a quando la voce di D’Avenia schiude e precede quella sottile e incerta di Marcolongo.

«Un’archeologa della parola. Ecco cosa sei anzitutto. Ma un’archeologia in senso stretto. Quella che identifica l’arché delle cose proprio nelle parole. E allora è questo che vorrei fare con te oggi. Tracciare la mappa del viaggio de La misura eroica – il tuo ultimo libro – solo ed esclusivamente con le parole». E chiosa dicendo: «Eroe. Questa è la prima parola di cui vorrei ci parlassi. In riferimento all’oggi, alla tua vita e appunto a questo libro».

Delicatissimo, il racconto di Marcolongo avvolge la sala. Ed è subito chiaro come La misura eroica sia un testo completamente diverso dal libro d’esordio che le ha regalato notorietà e successo (La lingua geniale) – e che forse avrebbe potuto forzare un’altra pubblicazione sulla stessa linea. «Sui giornali ho letto parecchie definizioni di questo libro. Non so nemmeno io quale sia quella più giusta. Ma “diario intimo” è quella che forse trovo più esatta». Infatti, ricordi, aneddoti, mito, viaggio, tensione e distensione formano la miscela narrativa del testo, che s’intreccia ad una tonalità emotiva oscillante: dalla gioia al pianto. Esattamente come l’eroe, che quando appare per la prima volta molto spesso piange – basti pensare alla prima scena di Ulisse nell’Odissea, o al momento in cui Achille, dopo aver deciso di abbandondare l’esercito di Agamennone, si nasconde e scoppia in lacrime. Ma Marcolongo va oltre, e regala alla sala un’immagine dalla fragilità entusiasmante: «Io credo di sapere perché si piange»  dice, «Piangendo le lacrime riempiono l’occhio e offuscano la vista. A quel punto non riusciamo a distinguere bene quello che abbiamo di fronte, e per questo continuiamo, non ci fermiamo» – come se le lacrime ci dessero il tempo di cui avremmo bisogno per ignorare il pericolo illusorio che potrebbe paralizzarci. Applauso coraggioso.

«Che poi spesso le lacrime sono per amore» , riprende D’Avenia. «E proprio all’inizio del tuo libro citi quel bellissimo passo del Simposio di Platone…», raccoglie il libro dal tavolo e legge. «Non esiste nessun uomo così codardo che Amore non riesca a infondergli coraggio, e a trasformarlo in eroe – come quando Omero il divino ispira la forza per la battaglia che verrà, così Amore fa questo dono agli innamorati, ed essi lo accettano da lui», ripone il libro e alza il volto.  «Ecco allora come la chiamata dell’eroe arrivi sempre da un spinta erotica». Guarda il pubblico e i tanti ragazzi nelle prime file. «Ho visto qualche ragazzo destarsi dal torpore in questo istante. Finalmente si parla di cose serie, vero?». I sorrisi di studenti e studentesse, ma anche di mamme e papà, testimoniano quanto l’arte dell’insegnante (e dell’insegnare) sia quella che più di tutte le altre incida indelebilmente sulla vita di ognuno. Onere e onore. «Quindi che ci dici a riguardo Andrea?»

Schermata 2018-05-12 alle 11.55.19

Il sorriso di Marcolongo si allarga fino ai bordi della guance, mentre ripetutamente ammucchia i capelli biondi in cima alla testa. «Mi dispiace deludere i maschi in sala, ma per erotico non s’intende qualcosa che centri col sesso. Si è eroi quando si è se stessi, oggi, domani. Ma se stessi. In questo senso l’eroe c’è anche qua tra noi. Ed è soprattutto quello che non nasconde il dolore, cosa da cui oggi si rifugge in ogni forma…». Il discorso della scrittrice è interrotto da un flebile applauso, a cui segue la voce di D’Avenia. «Andiamo alla prossima parola. Ma ci voglio arrivare così: nel mondo di oggi c’è un dato un po’ triste. Ciò che scegliamo – perché alla fine anche l’eroe è tale per le decisioni che prende – è la sicurezza al posto della salvezza. Nel mito che hai scelto di intersecare con la tua vita personale all’interno del libro, i giovani che partono sono su una nave. Quella parola così odiata dagli studenti di greco per via delle sue infinite eccezioni. E la nave oggi si contrappone a questo». Solleva con la mano sinistra il suo smartphone e lo agita in alto nell’aria silenziosissima della sala. «Così ci schermiamo dalla realtà. Entriamo in un suo surrogato. Perché è dove ci sentiamo sicuri, protetti, apprezzati. Il like. A questo colleghiamo il nostro benessere». Si schiarisce la voce. «Tu, ora, sei felice?» dice nello spazio di uno schiocco di dita.

Marcolongo incrocia le gambe sul piano del tavolo. Poi avvicina il microfono alle labbra. «C’è stato un momento in cui non avevo le parole. O forse non le volevo usare. Mi ricordo che quando mi sono trasferita a Milano la prima volta a sedici anni, non avevo detto a nessuno della mia mamma – che è una di quelle parole che ho cominciato ad usare di nuovo da quasi un anno – » sottolinea malinconica, «Quando mi chiedevano, ma dov’è la mamma?, Io rispondevo, è a casa. Per del tempo mi sono quasi vergognata fosse morta. Non volevo che nessuno mi compatisse. E non volevo parlare. Come per lungo tempo ho avuto una paura folle di diventare una scrittrice. Per una cosa. Che nel tempo ho capito che rispondesse al nome della parola alibi. Che rappresenta l’unione tra il latino alius e ubi. Altro e qui. Scappavo altrove. Nel primo porto che mi accogliesse». Il silenzio nella sala si può quasi toccare. Ha una forma.

«Porto. Un’altra delle parole di questo libro…» le suggerisce D’Avenia, e lei abbraccia l’invito. «Abito a Milano, ma vivo a Sarajevo. E forse per te sembrerà inopportuno che io viva lì. Ma non è così. Inopportuno significa appunto senza porto. E quella città per me lo è. E anche così quello di cui parlavo prima è passato. Il tatuaggio con scritto “senza parole”, qui sul braccio, l’ho cancellato. Ora siete voi a salvarmi ogni giorno. Voi lettori. Ma se dovessi rispondere alla tua domanda Alessandro», sorride, «ti direi di si. Che lo sono. Ma perché so cosa vuol dire felice. Felix vuol dire fertile. E la mia non è erudizione, l’ho letto sul vocabolario. Io sono felice etimologicamente. Lo sono. Da quando forse ho permesso di lasciarmi amare. Ma questa è un’altra storia», sorride ancora. Un altro applauso accompagna il rossore sulle sue guance.

«Vedete, la grandezza e la bellezza di Andrea è quella di saper creare dello spazio e del tempo in un altro spazio e in un altro tempo. E proprio questa è l’ultima parola di cui vorrei che ci dicessi qualcosa. Sulla tua concezione del tempo».

«Si, è vero. Ho una concezione del tempo un po’ particolare. Ma che in realtà non è assolutamente originale. È solamente la stessa che avevano in greci. E questo perché sin dalle superiori sono rimasta affascinata dal valore del verbo greco che la mia grammatica chiamava aspettuale. È lì che ho capito che noi, che io sono la valenza del perfetto di tutto questo. Ossia la conseguenza di quello che ci accade. In questo senso del futuro a me non interessa. Perché esattamente come dicevano i greci, il futuro arriva alle spalle. Ne siamo responsabili.»

Allora, forse, l’amore serve proprio a questa attesa e responsabilità. «Ti aspetto» e «resto» in greco hanno la stessa radice. Come dice alla fine del libro «Sarejevo mi ha insegnato che con l’amore (e con tanta ironia) non si perde mai. Nemmeno la guerra». (da La misura eroica).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *