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Inchiostro a volontà VIII edizione – 1° POSTO: CLICK!

di Chiara Romito

Un morto al secondo.
È quello che accade ogni giorno nel mondo. Un momento prima sei vivo, respiri, le costole si sollevano, così le clavicole e le spalle, l’addome si contrae e il diaframma s’innalza – per altri trenta secondi ti è concesso di restare a questo mondo – e quello dopo non ci sei più. È tutto così naturale che nemmeno te ne accorgi. Però succede che a un certo punto… puff! sparisci come polvere nel vento.
La gente non ci pensa mai, ma in realtà puoi essere morto anche prima di lasciare questo mondo. Starete pensando che sono un folle a fare una simile affermazione. “Cosa sta dicendo questo?” vi chiederete. Eppure è vero. Prendete me, che esempio perfetto!
Io, il prototipo del colletto bianco, una scimmietta addestrata per masticare parole e concetti che la maggior parte di voi non conosce, in un mondo fatto di capitali, gestione dei rischi, strategie e un gran quantitativo di grafici, tabelle e numeri che, visti per la prima volta – e in forma ridotta – a scuola, vi hanno fatto venire un bel mal di testa con il risultato di farvi ripromettere di non scegliere mai di studiare economia all’università. Io economia l’ho studiata, mi sono laureato, ho continuato a collezionare titoli di studio e ho fatto strada, come si dice dalle mie parti. Ho trovato un buon lavoro e ho accantonato il mio sogno di andare in India a meditare, mi dicevo che avrei avuto tempo dopo, da grande; intanto grande ci diventavo.
Poi incontri una bella donna, la porti fuori a cena, la fai ridere. Avvenimenti comuni nella vita di un uomo, immagini convenzionali, quasi ripetitive. Quelli bravi veramente ci scrivono sopra le poesie, quelli come me sono buoni solo a dire che avrebbero fatto di tutto per rendere felice la loro donna. Avrei fatto di tutto per vedere il suo sguardo brillare di ammirazione, per leggere nei suoi occhi quel “grazie per tutto” che mi dava la forza di alzarmi tutte le mattine e andare a lavorare. Ogni giorno, per tutta la vita.
Poi fai dei figli e mano a mano i progetti che avevi cambiano. Metti da parte la moto che volevi comprarti per festeggiare i 30 anni, saluti il viaggio dei tuoi sogni di ventenne e ti butti a capofitto in un nuovo capitolo della tua vita. Sostituisci la cabriolet con una familiare, metti la tua firma sotto la richiesta di mutuo, volti un’altra pagina, la tua esistenza è scandita dalla quotidianità. Vai avanti con il paraocchi e come un cavallo guardi solo dritto di fronte a te, niente intorno ti distrae, è tutto regolare, tranquillo.
Che poi io questa cosa del dire che il paraocchi serve per la sicurezza del cavallo non l’ho mai capita. Se lo chiedi a un esperto – perché si usa il paraocchi, intendo – ti risponde che il suo utilizzo serve per non fare del male alla povera bestia, che altrimenti, la povera bestia, si svaga e si guarda intorno e, pensa un po’, rimane terrorizzato dal vedere le automobili sfrecciargli di fianco, o la confusione di un ippodromo. Si rende conto di non essere al sicuro. E allora ecco che gli togli ciò che la natura gli ha donato e tac, tutto torna a posto e l’animale fa il suo dovere. Chi è che l’ha deciso che il suo dovere è quello di portarti in giro, dico io, o di farti vincere delle gare in una prova di forza che non è nemmeno tua. Ma questo è un altro discorso, vorrei avere il tempo per approfondirlo, avrei un sacco di cose da dirvi a riguardo, ma non me ne è rimasto molto. Il punto è che io sono il cavallo.
Sono quello che per anni è andato avanti senza vedere veramente il mondo intorno a lui, senza fermarsi un giorno per prendere fiato e godersi il frutto del suo duro lavoro. Ciò che ho sempre fatto si riduce solo a quello, il lavoro. Sono un cavallo da fatica, uno di quelli che invecchia e diventa un peso, non porta più nulla di buono, quindi va eliminato.
Io sono già morto.
Per tutta la vita ho guardato solo davanti a me, proprio come un cavallo con il paraocchi. Non mi sono mai reso conto che intorno c’erano altri modi di vedere le cose, altri mondi, altri sogni da vivere. Ero talmente abituato alla mia personale strada di “mattoni gialli” da seguire che ero cieco. Vedevo solo gli sguardi che volevo vedere, ovvero quelli di ammirazione, di ringraziamento, quegli sguardi che ti fanno camminare tronfio come un pavone, per intenderci.
Quando tutto è cambiato ha fatto male. Il mio paraocchi di colpo è venuto via, lasciandomi ad affrontare una marea di espressioni mai calcolate prima. Vi starete chiedendo cos’è successo. In poche parole mi hanno licenziato.
Era novembre e in ufficio ha fatto la sua comparsa un gruppetto di persone in completi scuri e cravatte firmate. I volti lisci, profumati dai dopobarba costosi, i capelli freschi di taglio. “Sei bravo” mi hanno detto “ma c’è crisi”; sembrava uno di quei discorsi da bar sport, frasi fatte che quando le senti ti fanno spuntare un sorrisino e pensare che è tutto uno scherzo, che non sta succedendo veramente a te.
Ma nessuno stava scherzando e mi sono ritrovato tra le mani una scatola di cartone, al cui interno giacevano solitarie le foto dei miei figli e quei pochi oggetti personali che avevo portato nel mio ufficio. Uscendo avevo notato uno sciame di colleghi farsi strada per vedere che era successo, non parlavano ma dicevano tutto con gli occhi.
Quegli occhi che incrociavano i miei per qualche secondo, e poi li rifuggivano con un muto ringraziamento. Era come se mi ringraziassero per non fermarmi lì a condividere la mia sfortuna. Sotto sotto mi stavano dicendo “grazie di non farmi partecipe”.
Perché alla fine tutto si riduce a questo, a quell’espressione del volto che ti dice “ehi, non devi raccontarmi i tuoi problemi, ne ho già abbastanza di miei”. D’altronde chi vorrebbe partecipare al dolore altrui? Forse giusto un martire.
Funziona così: prima lanci un’occhiata veloce alla persona che è nei guai, quando incroci il suo sguardo sbatti le ciglia – come un bimbo che si è fatto trovare con le mani nella marmellata – e a questo punto cerchi di fare un sorrisetto, gli angoli della bocca si piegano, ma gli occhi (mica per niente ci si riferisce a loro chiamandoli lo specchio dell’anima, no?) non prendono vita, hanno solo una luce triste, di compatimento e sollievo al tempo stesso; quegli occhi dicono “mi dispiace per te, ma per fortuna non ci sono io al tuo posto”, ti stanno comunicando che è ora di andare via, che non devi stare lì a mostrare il tuo dolore perché crei loro disagio. Loro, di quel dolore, non vogliono farne parte, ed è da qui che arriva il grazie di non farmi partecipe.
Da quel momento in poi la mia vita è andata a rotoli. Non c’è lavoro, non ci sono soldi, non ci sono più gli amici e nemmeno la famiglia. Avete mai provato a chiedere aiuti finanziari ai vostri cari? Ecco, se volete ancora considerarli tali, non fatelo. Magari le prima volte vi va bene, qualcosa lo racimolate, anche se dovete mettere da parte la vostra dignità, spingerla in un angolino e lasciarla lì a marcire.

Chiara Romito

Poi le persone cominciano ad allontanarsi da te, tua moglie non ce la fa più, i tuoi figli non capiscono e ti ritrovi solo come un cane. Così – la barba sfatta, gli abiti sporchi – stai seduto all’angolo di una strada. Gli occhi vacui e arrossati. La gente ti passa di fianco come se non esistessi.
Per loro sei già morto.
Qualcuno ti lancia due spicci e non ti guarda in volto, altri pensano che magari i loro soldi li userai per bere, e allora non ti lasciano nulla. La maggior parte ti lancia occhiate furtive, chiedendosi forse come ti ci sei ridotto così, che fannullone! In molti ho rivisto quello sguardo, quel ringraziamento muto per non condividere il mio dolore al loro passaggio. Quel ringraziamento per stare zitto, non tirare una manica, non chiedere esplicitamente, non attirare l’attenzione. E io non lo sopporto più, questo ringraziamento per essere invisibile.
Per fortuna mi basta un CLICK. Un colpo di pistola ed è tutto finito.
Perciò, arrivederci all’inferno amici e grazie.

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