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L’incendio a Moria lascia tredicimila migranti senza riparo

Quello di Moria, sull’isola di Lesbo, è stato il campo profughi più grande d’Europa, anche se di certo non era stato costruito con l’ambizione di raggiungere tale primato. Ospitava circa il quadruplo della sua capienza massima, per un totale di quasi tredicimila persone richiedenti asilo che, nella notte dell’8 settembre, hanno visto le loro precarie condizioni di vita dissolversi tra le fiamme. L’incendio, divampato in più punti, ha incenerito tre quarti del campo e ha scatenato una vera e propria emergenza umanitaria.

Moria è una località sull’isola di Lesbo dove, a fronte dell’acuirsi della crisi migratoria europea nel 2015, era stato costruito un hotspot per contenere l’enorme ondata di persone provenienti dall’Egeo e intenzionate a seguire la cosiddetta “rotta balcanica” verso l’Europa. I profughi sarebbero dovuti sostare brevemente nel campo, per essere sottoposti alle procedure di identificazione previste dalla Convenzione di Dublino.
Nel 2016 l’Europa ha revisionato le sue politiche migratorie, stabilendo che prima dell’identificazione ci dovesse essere la detenzione amministrativa dei richiedenti asilo. Nello stesso anno era stata pianificata la redistribuzione proporzionale dei migranti in tutti i Paesi europei, ma non è mai totalmente avvenuta. A Lesbo e nelle altre isole greche sono rimaste molte più persone di quante la Grecia da sola sarebbe stata in grado di gestire.

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La svolta decisiva nella gestione della crisi migratoria è stata un accordo diplomatico internazionale: l’UE ha versato 6 miliardi di euro affinché la Turchia sorvegliasse la frontiera con la Grecia e costruisse strutture idonee per ospitare un altissimo numero di profughi. La realizzazione di questo accordo ha permesso di ridurre sensibilmente gli sbarchi, ma ha avuto un costo in termini di violazione dei diritti umani altissimo. L’emergenza migratoria non ha trovato una risposta solidale dagli Stati membri, e in quell’anno la Grecia ha potuto contare solo su 22mila dei 60mila ricollocamenti promessi dall’UE. Inevitabilmente, quindi, Moria è diventato un polo di concentrazione dei migranti e si è di conseguenza trasformato, senza però migliorare nessuno standard di vita al proprio interno.

Per prima cosa, sono state costruite recinzioni lungo tutto il perimetro; poi sono arrivati venditori ambulanti greci intorno alla rete, speranzosi di ricavare profitto dalla vendita dei beni di prima necessità ai migranti all’interno del campo. Con il passare del tempo però, l’incremento di persone arrivate a Moria ha determinato l’insorgere di falle in questo sistema detentivo: più punti delle recinzioni sono stati sollevati o tranciati, tanto che la tendopoli si è allargata anche fuori dal campo.
Le persone erano divise per settori, ad esempio quello degli uomini o delle donne. Vivevano in condizioni insalubri, dentro baracche disseminate nel fango, con un bagno ogni 50 persone e una doccia ogni 70. Erano esposte alle intemperie dell’isola e provate dalla carenza di cibo e acqua, che le autorità non riuscivano a fornire a sufficienza per via del sovraffolamento. Frequenti erano le rivolte, talvolta anche gli incendi. Atti che, però, non hanno mai contribuito a un cambiamento radicale delle condizioni di Moria.

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Il campo di Moria nel 2019
(Foto di NurPhoto via Getty Images)

In questo modo si è arrivati, negli anni, ad avere quasi tredicimila persone – provenienti da più di cinque Paesi di diversi continenti – in un centro pensato per poco più di duemila ospiti. Di fatto, quei profughi erano detenuti: molti erano in attesa di ottenere una risposta alla loro domanda di asilo, altri ancora non lasciavano l’isola perché non si potevano permettere il costo della vita sulla terraferma.Le ONG riportavano casi di autolesionismo e tendenze suicide, anche tra i bambini. Nonostante avessero dimostrato una grande forza durante il viaggio estenuante dal Paese d’origine, con tutta probabilità prostrato dalla guerra dato che la maggioranza dei profughi era di origine siriana o afghana, una volta arrivati al campo iniziava un lento deperimento morale. Si credeva di rimanere in quello stato di miseria per poche settimane, forse qualche mese, e si finiva per rimanere bloccati lì per anni.

Questa era la situazione a Moria all’inizio del 2020. Poi si è aggiunta la pandemia globale a complicare ulteriormente le cose. Un ambiente come quello, sovraffollato e munito di servizi esclusivamente in comune, era terreno facile per l’attecchire delle malattie. Molti erano preoccupati, specialmente dopo l’annuncio del primo caso di Coronavirus ai primi di settembre. Non c’è stato un vero e proprio intervento del governo greco per migliorare le condizioni igienico-sanitarie del campo di Moria, si è solo provveduto a costruirgli attorno un muro di cinta, di fatto ghettizzando i migranti e lasciandoli nell’impossibilità di seguire le direttive dell’OMS.
Forse è stata quella la goccia che ha fatto traboccare il vaso: se prima l’equilibrio di quella microsocietà di emarginati era appesa a un filo, dal 9 settembre in poi esso si è definitivamente spezzato. Moria, luogo di decadente speranza e di lento logoramento, nella notte tra l’8 e il 9 settembre è stato distrutto dalle fiamme. Sono stati arrestati cinque profughi afghani ritenuti colpevoli di aver appiccato il fuoco, ma gran parte dei migranti sostiene ancora che siano stati i residenti di Lesbo a compiere quel sabotaggio, stanchi di vedere la loro isola allo stremo, di condividere le risorse con migranti mai davvero accettati e di essere dimenticati dall’UE.

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Nonostante le cause poco chiare, le conseguenze dell’incendio sono state terribilmente tangibili. Il caos è scoppiato tra la folla: migliaia di persone si sono trovate a dormire in ripari di fortuna in mezzo ai campi, nelle strade o addirittura nei parcheggi dell’isola. La polizia ha formato delle barriere per bloccare le strade di accesso a Moria mentre un nuovo campo, Kara Tape, ha accolto nei giorni successivi alcune centinaia di persone. Quest’ultimo è stato fortemente osteggiato sia dai residenti di Lesbo che dagli stessi migranti, poiché sembra l’ennesimo rinvio della presa in carico di vite umane, parcheggiate in un nuovo ghetto, in una nuova logorante attesa.
Ci sono state diverse proteste dopo l’incendio di Moria. Sull’isola di Lesbo, i migranti si sono scontrati con i blocchi della polizia, reggendo cartelli in cui si leggeva Moria kills” e “Get us out of here”; a Berlino, davanti al Reichstag, sono state collocate tredicimila sedie vuote, a simboleggiare i tredicimila profughi di Moria e la necessità di accoglierli in Europa.
La Germania ha sin da subito dichiarato che avrebbe ospitato 400 minori non accompagnati. Il vertice UE tenutosi d’urgenza dopo l’incendio ha decretato lo stanziamento di fondi per la costruzione di un nuovo campo, più efficace e meno malsano, e il ricollocamento delle persone più vulnerabili.

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Le tredicimila sedie vuote davanti al palazzo del Reichstag
(Foto di HAYOUNG JEON via EPA-EFE)

Non sappiamo se lo squarcio di fuoco abbia cambiato in bene la situazione a Moria. Di certo essa è diversa e molto più impellente rispetto a poche settimane fa, ma a cambiare dovrebbe essere l’intero sistema di accoglienza, dal momento che si sono verificati i segni di un evidente fallimento di quello attuale.
Innanzitutto, il peso burocratico dell’identificazione non dovrebbe più essere affidato esclusivamente al primo Paese con cui il migrante viene a contatto, perché in questo modo si grava eccessivamente sugli Stati di confine dell’Unione, come Grecia e Italia, e si creano liste d’attesa infinite. L’accordo tra Bruxelles e Ankara dovrebbe subire modifiche che tengano conto dei diritti umani dei migranti, compreso il diritto a un equo esame della loro domanda d’asilo ed a una protezione effettiva.
A cambiare, forse, dovrebbe essere l’Unione stessa: una solidarietà concreta tra i Paesi membri permetterebbe di dare finalmente una risposta efficace al problema della gestione dei migranti.

(La fotografia in copertina è di Angelos Tzortzinis, via AFP/Getty)

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