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Anatonomia di un’esecuzione: “L’impiccagione”

“Signore e signori, siete contrari o favorevoli all’abolizione della pena di morte? […] Avete mai visto una camera delle esecuzioni? Avete mai assistito ad un’esecuzione?”

vlcsnap-2018-02-26-19h43m53s282È il 1968,  un sondaggio dell’anno precedente indetto dal  Ministero della Giustizia giapponese ha evidenziato come il 71% della popolazione sia contraria all’abolzione delle pena di morte. È a loro che appena finiti i titoli di testa il film si rivolge con fare inquisitorio, ben due volte: “Avete mai visto una camera delle esecuzioni? Avete mai assistito ad una esecuzione?”. Senza troppi preamboli siamo introdotti nel lotto in cui si svolgono le impiccagioni, con fredda precisione si elencano i funzionari che ve ne prendono parte, il cerimoniale e il dislocamento delle stanze e la loro funzione. Un ultimo pasto, l’ultima sigaretta (rifiutata) e l’eucarestia, dopo di che le manette, una benda sugl’occhi e due guardie accompagnano al patibolo il condannato. Sembrerebbe iniziare paradossalmente da una fine questo film. Ma parliamone, Oshima non mi era di certo un nome sconosciuto, elencato tra i maggiori esponenti del Nuovo Cinema giapponese, con il suo Racconto crudele della giovinezza è stato il regista che propababilmente più di altri ha portato i riflettori sul fenomeno, e raggiunto il maggior successo commerciale. Potendo citare lo scandalosissimo Ecco l’impero dei sensi, uno dei primi film d’autore dal contenuto esplicitamente pornografico, l’attenzione su questo particolare titolo, in mezzo ad una filmografia ben nutrita, mi è caduta per una lista ufficiosa di Scorsese, contente i migliori film stranieri secondo il regista americano. Tra classici dell’Espressionismo tedesco, del Neorealismo italiano, Antonioni, Risi, Godard e Truffaut, figurava anche questo titolo: L’impiccagione. Consiglio quanto mai azzeccato.

vlcsnap-2018-02-26-20h41m44s835Abbiamo già detto che il film inizia da una fine, la fine delle vita di R, il condannato. O meglio fine della sua vita come R. Sta di fatto che il condannato, come suggerisce il tableau che introduce la sequenza, si rifiuta di essere eseguito. Viene sì certo impiccato, ma non muore e, al di là dell’improbabile teoria del cappellano, che, affermando di aver già affidato la sua anima a Dio, si oppone alla ripresa dell’esecuzione, tutti aspettano che R riprenda conoscenza per preseguire. R si rifiuta di essere R, al proprio risveglio si dimostra di identificarsi con il criminale condannato. Prende da qui il via di una messa in scena tragi-comica, in cui tutti i funzionari, tra guardie, medico legale e capo istruttore, i vari personaggi inscenano le vicende che hanno portato R a essere quello che è. Con qualche reticenza, R presta il fianco a questa forma di rievocazione, attraversando i proprio crimini, la propria vita quotidiana, la propria condizione di operaio coreano, emarginato e sfruttato, fino a ridentificarsi ed accettare la propria pena. Un film che, al di là delle crude vicende narrate, mette in scena uno spettro tematico ampissimo. Da i problemi dell’identità del soggetto, passando per la denuncia sociale e la presa di posizione nei confronti della pena di morte, il film mette in scena delle vicende sporchemente concrete. Sì, certo, con freddezza e distacco, o meglio con una certa posatezza tipica di Oshima. Il bianco e nero, per lo più ambientato nelle camere adibite all’esecuzione, con un rapida escursione esterna, restituisce sempre la delicatezza e posatezza già citata. Il gioco sui campi, con in primo piano il cappio a coprire una profondità di campo abitata dagli attori della vicenda, è un esempio di come Oshima esprima la propria ricerca stilistica.

vlcsnap-2018-03-13-20h37m50s193In definitiva, per compostezza, eleganza e ricchezza, questo film non può che essere considerato un piccolo capolavoro della cinematografia moderna. Il consiglio, insieme a quello di Scorsese, è di recuperarlo.

vlcsnap-2018-02-26-21h40m46s105

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