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Il vento nuovo da Taiwan: “Millennium Mambo”

Se negli anni ottanta il Cinema giapponese non aveva bisogno di presentazioni, e se, in Cina, Terra Gialla (1984), di Chen Kaige, tracciava idealmente la linea di partenza per l’avvento di un nuovo Cinema poetico dai tempi lontani di Ruan Lingyu, nella vicina isola di Taiwan, al contrario, risultava necessario lo stimolo indotto soltanto nel 1982 dalla fondazione di un archivio di cinematografia nazionale per avviare un’inedita fioritura della Settima Arte. In un contesto giovane e in cerca di autenticazione come quello taiwanese, il contributo più determinante giunge tutt’insieme dai risultati folgoranti dell’imponente produzione di Hou Hsiao-Hsien. Figura geniale e influenzata dall’emulazione del rigore di Ozu, Hou ha calamitato attorno a sé le attenzioni di quel pubblico internazionale di eletti che ha visto in lui il grande classicista del suo tempo.

CE_CitySadnessMain-1024x538Bisogna guardare a Città dolente (1989) per comprendere la densità dell’atteggiamento meditativo del regista, della tensione emotiva propria del suo cast di personaggi. Non è nell’attenzione alla storia dell’isola – in particolare al conflitto degli anni quarante – che si innesta l’importanza della sua produzione, quanto nel rigore dell’edificazione di un impianto strutturale che pare inattaccabile. Non un’inquadratura che non sia fissa, perché il ricordo è una finestra attraverso la quale Hou guarda, silente e forse nostalgico; non un’inquadratura che non sia protratta a lungo (in media oltre i 30 secondi), perché la vita è percossa anche, e soprattutto, da tempi morti; non un accenno dell’intenzione di lacerare l’immobilità stagnante degli spazi e dei lunghi silenzi. L’ossequio di Hou alla spazialità, da catturare mediante campi lunghi, medi e totali, è tale che anche i suoi personaggi finiscono per rispettarlo: se è l’inquadratura fissa a generare tensione, allora saranno i corpi dei personaggi a stanziarsi nel mezzo, contemplandola, e poi ad attraversarla nel loro incedere lento.

Era probabilmente il rispetto di questa linea e il continuo rimando ad Ozu che ci si sarebbe aspettati di trovare nella successiva produzione cinematografica di Hou. In parte così è stato, almeno fino a quando, all’avvio del nuovo millennio, il maestro di Taiwan ha portato a compimento un’opera stilisticamente radicale, disancorata dalle certezze formali che in Città dolente avevano trovato la loro piena realizzazione. Millennium Mambo, del 2001, porta nuovamente all’attenzione dello spettatore il tema della memoria, la quale non si fa più, tuttavia, percorso storico nella temporalità definita di una Taiwan in evoluzione, ma disarticolazione e occlusione offuscata di sequenze del passato, tali da avere più la flessibilità del sogno che la consistenza dei fatti.

MillenniumMambo-thumb-860xauto-53488La Vicky interpretata da Shu Qi – destinata a diventare attrice feticcio del Cinema di Hou, fino al più recente The Assassin (2015) – è una ragazza che, per amore, si abbandona alla convivenza con l’impudente e sempre irrequieto Hao-Hao (Tuan Chun-Hao), la cui morbosa gelosia finisce presto per ingabbiarla in un’esistenza priva di qualsivoglia prospettiva idilliaca di personale realizzazione. Non più la coralità della dimensione familiare, la rete polifonica di voci discordanti; ora c’è solo la centralità di una giovane donna reclusa tanto nell’insensatezza caotica della metropoli, quanto nei bisogni del suo stesso corpo. L’abulia sognante e sfatta dei giovani ripresi dalla macchina di Hou, affossati nella trasandatezza e nell’appagamento dei piaceri del corpo – quasi un cenno, verrebbe da dire, ai personaggi del francese Cinema du look –, accentua la difficoltà di Vicky di venire a capo di questo ottundente disfacimento.

La macchina da presa indugia a lungo sulle reazioni di Vicky che non si hanno mai per davvero, ma non lo fa mantenendosi nell’immobilità distante dei campi lunghi e totali, al contrario si avvicina ai corpi ed esegue piani-sequenza con movimenti fluidi e lenti. Non solo, l’uso ripetuto della focale lunga e dei teleobbiettivi che, sul focus-pull di Vicky, intercettano tutt’una serie di oggetti e di volti, di interi spazi angusti fuori fuoco, definisce la lucidità compromessa, l’impossibilità di una chiara lettura della psicologia e dei ricordi della ragazza.

vuDKlB2In Millennium Mambo è però la scena iniziale a racchiudere, più di ogni altra, l’estetica del sogno e della memoria, quasi a sé stante per la bellezza rapita che genera nello spettatore. Guardando con un brevissimo contre-plongée al soffitto di uno stretto corridoio urbano sormontato da luci al neon, l’occhio della macchina da presa si abbassa sul personaggio di Vicky, e con lei avanza nel piano-sequenza che stacca sul titolo solo al termine dello stesso corridoio. Vicky è ripresa di spalle, cammina scuotendo braccia e capelli, di tanto in tanto volge lo sguardo in macchina. La musica tecno e il ralenti isolano la sequenza, rendendo impossibile stabilirne la temporalità e quasi irriconoscibile la distinzione fra percezione di un ricordo o visibilità di un sogno. Quindi la ragazza parla di sé, ma in voice-over e in terza persona. Siamo stati catapultati nel 2001, in un passato vecchio di 10 anni a cui la ragazza guarda con sereno distacco, percepibile dal tono tranquillo della voce e, per l’appunto, dall’uso della terza persona. Nella conclusione, necessaria per la comprensione di quanto visto fino a quel momento, ci troviamo invece a Yubari, villaggio nell’isola di Hokkaido ovattato dalla neve, dove Vicky si è rifugiata e sembra aver gelato nel freddo l’ipnosi ammaliante che Hao-Hao aveva un tempo esercitato su di lei. È la forma, ancora una volta, a definire la grandezza registica di Hou Hsiao-Hsien, il quale in una reiterazione simmetrica degli espedienti stilistici propri della scena iniziale, stacca dal corpo del film ed eleva anche la conclusione a segmento esemplare del suo Cinema.

Tutte le variazioni della tecnica cinematografica messe qui in campo soggiacciono alla necessità di Hou di disancorarsi dalla classicità del suo Cinema per narrare visivamente la contemporaneità delle nuove generazioni taiwanesi. Arrischiandosi con un’operazione tanto distante dall’imponenza di Città dolente, Hou produce, silenziosamente, uno dei primissimi capolavori della cinematografia del nuovo millennio.

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