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“Il talento dell’equilibrista”: i versi disillusi di Aprile

Originario di Napoli, Guglielmo Aprile è nato nel 1978 e ha collaborato con varie riviste, a studi su grandi autori come D’Annunzio e Boccaccio. La sua produzione poetica si compone di diverse raccolte, ad esempio Nessun mattino sarà mai l’ultimo (Zone Editrice), Calypso (Oedipus). Il talento dell’equilibrista è la sua ultima opera, pubblicata da Giuliano Ladolfi Editore.

Il talento dell’equilibrista è un’opera che mette in luce lo stile e la consapevolezza maturati da un poeta non nuovo al verso, oltre a una ponderata sicurezza rispetto a ciò che intende comunicare. Lo stile è “concreto”, come giustamente riporta la quarta di copertina, aspro e volutamente avaro di qualsivoglia ricerca di grazia. Spogliato di ogni fronzolo, Aprile si getta alla scoperta di un mondo che ha ormai cessato di illudere il poeta, in cui la morte rappresenta una fuga dall’albergo sgraziato, metafora di un’esistenza costellata di sterili banalità.

Nequiquam è il lapidario titolo della prima sezione, la cui traduzione (invano), è sufficientemente eloquente. In queste prime poesie, si inizia a familiarizzare con lo stile dell’autore, la cui dimensione è prepotentemente radicata nel quotidiano più intimo dell’individuo. Fin dal primo passo, Prognosi, ci accompagna in un mondo in cui dominano oggetti e consuetudini che troppo poco spesso la poesia ha il coraggio di sfiorare: uno stendibiancheria, l’orinazione, e più avanti leggeremo di scarpe rotte, addirittura dell’impianto di compostaggio. Ci si fa strada attraverso una realtà che, a definire ostile, la si rivestirebbe di un ruolo attivo che essa non ha; è invece passiva e ciecamente votata alla distruzione progressiva. Il poeta mette in versi una vera e propria neutralizzazione del senso, narrando un processo di nientificazione che fa del soggetto una cosa in frantumi, fino a farlo sperare in una pietosa e celere dipartita.

L’ansia di cercare (inventare) una dimensione metafisica che si opponga al vuoto nichilistico è palpabile, talvolta accompagnata da qualche raro incontro con la bellezza, sempre vissuto tetramente: nemmeno facciamo caso / al ricco paesaggio lasciato dietro. Un ricco paesaggio che forse è solo la speranza di una grazia che in realtà non si percepisce ma si desidererebbe poter vivere. L’esistenza (non solo la vita, ma l’Essere) scivola via velocemente e le poesie della seconda parte, intitolata Bildungsroman, altro non fanno che sottolineare quanto sia fugace questa condizione. In questa sezione i componimenti tendono a guardare più lontano, verso la fine del viaggio, con i verbi spesso rivolti al futuro. L’impazienza dei passeggeri / è ingiustificata a confronto / con la scarsa attrattiva della meta finale: Aprile sembra guardarci correre incontro alla distruzione come se avessimo fretta di sparire, chiedendoci se veramente valga la pena volgerci al futuro con così tanta insistenza. Questa considerazione si aggiunge alle non poche espresse dall’autore, che paiono quasi domande retoriche rivolte a noi lettori. La poesia di Guglielmo Aprile, in effetti, sa pungere in maniera cinica e acida, spingendoci più volte ad interrogarci sulla nostra condotta. Leggendo alcuni versi, si prova la sensazione di essere violati dalle questioni scomode che solleva, che cercano di stracciare il velo di ingenuità attraverso cui viviamo il mondo. Scritto nel vento è forse il componimento più crudele in tal senso, nel suo rivolgersi direttamente al lettore, comunicandogli il suo destino senza nemmeno cercare di indorare la pillola:

fai bene ad abituarti all’idea

che il domicilio attuale è provvisorio;

verrai sfrattato anche se non sai quando

da questa tana, in fondo calda e comoda,

fattene una ragione,

non è prevista proroga il vento ama

improvvisare, non ha amanti fisse.

Chiamando a sé echi esistenzialisti, fra il divertissement e la noia, fino a cedere in un disilluso nichilismo, Il talento dell’equilibrista si costituisce come un’opera ben definita, armoniosa pur nelle sue caustiche sentenze. Infine, viene da chiedersi cosa sia questo talento di cui è dotato l’equilibrista. Forse, è la bravura con cui l’autore danza nella foresta della sua poesia, l’agilità con cui ricama universi di senso così distanti fra loro, mettendo in comunicazione gli elementi più volgari del quotidiano con i significati più profondi che il verso riesce a rivelare.

 

 

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