Attualità

Il sorriso dell’antimafia: intervista a Giulio Cavalli

di Francesca Perucco

 

L’antimafia che più piace, quella che si lascia raccontare e fa dell’orrore bellezza, ha tanti volti e voci libere. La faccia giovane e la voce ferma, un sorriso aperto e l’imbarazzo del pubblico.
Roberto torna a Pavia dopo pochi mesi e svela il piacere di fare di una libreria il luogo dove riprendere i contatti con il suo pubblico. Sulla sedia ci resta poco, si alza, le braccia scomode, dice: “Mi sfottono perché sono lento” poi si gratta la testa e sorride. Ha l’aria impacciata di uno scrittore che ha da poco scoperto la forza della sua voce. Ha 26 anni Saviano quando pubblica Gomorra, ha un nome conosciuto per qualche pezzo scritto su testate importanti, una voce sentita già dall’osservatorio della camorra e un’esperienza di vita snocciolata di pagina in pagina. Bastano pochi mesi a farne un caso editoriale, ai lettori italiani racconta una verità scritta nelle loro coscienze, al resto del mondo ne racconta una che a fatica si confina alla sola penisola. Si legge da sola questa storia, tanta è l’abilità dello scrittore che la disegna, la fatica è pesare la parola che corre. Il rischio è di perdersi nella narrazione, ma trema il lettore quando si trova denudato dell’ultima ingenuità.
Giulio Cavalli è un altro dei volti dell’antimafia, una voce per ora lontana dai palcoscenici più popolari che si fa amare da un pubblico affezionato e che ancora lavora per crescere e raggiungere coscienze. Un impegno che ha la faccia di un lodigiano, la pragmaticità di un lombardo e la forza del teatro. Inchiostro lo ha intervistato.
Inchiostro – Calchi il palcoscenico per la prima volta nel 2006 con Paolo Rossi, poi nel 2007 al Piccolo di Milano presenti il primo spettacolo come autore. Seguono “Do ut Des, spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi” e “A cento Passi dal Duomo”. Entrambi denunciano la criminalità organizzata, come ti sei trovato a fare antimafia?

Giulio Cavalli – Di solito dicono che Giulio Cavalli è un attore, non è vero. Qualcuno mi chiama il “giullare antimafia”, altrimenti, conoscendo il mio pessimo carattere, dicono giornalista-attore-autore-scrittore-consigliere regionale-esperto di criminalità organizzata. Io di lavoro racconto delle storie e questa è una fortuna enorme. Non sono un teatrante puro ma ho una formazione da commedia dell’arte, ho sempre avuto un amore profondo per i giullari e i cantastorie. Sono stati loro i più grandi intellettuali e politici della storia d’Italia e le figure che più abbiamo esportato nel mondo. Riuscivano a fare in modo che la piazza ridesse del re, a dimostrare quanto il potere è patetico quando diventa prepotente perché non più capace di governare secondo le regole. Facendo l’arlecchino mi sono dedicato a quelle storie in cui alla risata non servono mediazioni, perché sorge spontanea e incontrollabile, quelle storie che difficilmente si leggono sui giornali. Cercavo un sorriso tragico, di una verità sotto la polvere. Una risata pericolosa perché profumata di verità, una risata che i potenti temono.

“Nomi, cognomi e infami” è il titolo del tuo primo libro, pubblicato da Verdenero, uscito nel 2010. Un diario impersonale di storie già note, quelle di un passato che ha già combattuto la mafia. Perché questa scelta?
Questo paese si è dimenticato il libretto d’istruzioni della memoria: la memoria non va commemorata, va esercitata. “Nomi, cognomi e infami” non nasce quindi per commemorare Peppino Impastato o Falcone e Borsellino, ma per testimoniare il tentativo di essere ogni giorno, per un paio di centimetri in più, quel Peppino Impastato. Volevo raccontare le esperienze di persone che hanno allevato famiglie, sempre con la serenità negli occhi, avendo sulle spalle 40 anni di antimafia, parlo di Giancarlo Caselli e di Antonio Ingroia, di Bruno Caccia e tanti altri. Siamo un paese con una memoria da pesciolino rosso che dura dieci secondi prima di riformattarsi, in questo libro ho raccolto le puntate precedenti che non volevo andassero perse, di nuovo.

Come l’arte, nella forma del teatro, può farsi strumento dell’impegno civile?
Nel 2006 abbiamo iniziato a raccontare la mafia con le sue parole, una mafia in mutande. Attraverso il teatro “civile” abbiamo creato quell’antiracket culturale capace di confiscare bellezza. La mafia sa comprare ma non sa creare e non c’è vera bellezza che si prostituisca al migliore offerente. Raccontiamo l’indignazione davanti al potere esercitato da una persona come Totò Riina, così ignorante da non essere credibile in una paese come l’Italia che ha fatto della cultura e della bellezza la sua storia.

Nell’aprile del 2010 sei stato eletto consigliere regionale di Italia dei valori in Lombardia, perché scegli di far anche politica?
La mia scelta viene dalla paura e il rischio di diventare un’icona dell’antimafia. La mafia non si sconfigge con scrittori e attori ma con una rete solidale che reclama giustizia. Il sindaco di Milano, di fronte a chi le chiedeva i motivi del successo dei miei spettacoli rispose “la politica non ha l’obbligo di rispondere agli attori”. Mi ha sempre colpito la netta divisione tra politica e il resto del mondo e allora ho pensato che volevo provare a vederla da dentro questa politica, a tenerne le carte in mano. Così il mio primo impegno in consiglio regionale è stato quello di fare una legge sull’educazione alla legalità.

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