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Il sindacato è inutile (o forse no) | Intervista a Renato Ferrari

Ogni generazione ha le proprie battaglie. Se a inizio secolo bisognava difendersi dall’invasore nemico, negli anni ‘50 occorreva riformare un paese distrutto. Se nella seconda metà del ‘900 si sono mossi i primi passi verso l’apertura della società, oggi ci si “scanna” per un like. Ognuno, appunto, combatte le proprie battaglie.

Per capire meglio una delle parti sociali che ha rappresentato tante conquiste della società e che ha dato voce a milioni di lavoratori, ho intervistato Renato Ferrari, presidente UIL (Unione Italiana del Lavoro) di Pavia, in occasione della presentazione del suo secondo libro. Classe 1937, il 24 ottobre 2017 presenterà il suo “Quota 80: ovvero quanti ricordi” in cui si racconta e parla della figura del sindacalista dagli anni ‘60 a oggi. Si può carpire il mutamento della società sfogliando quelle pagine, scritte con una più o meno velata ironia per alleggerire argomenti che possono risultare lontani. Grazie alle molte foto si riesce inoltre a ripercorrere la storia dell’Italia attraverso la vicenda personale di chi l’Italia ha contribuito a crearla. Formatosi con i grandi, finisce ad incontrare i mostri sacri della vita pubblica pavese e italiana fino a diventarlo lui stesso.

Bando alle ciance.

A cosa serve il sindacato oggi?

Il ruolo del sindacato oggi non è cambiato rispetto al passato. L’essenza è identica. Lo scopo principale è quello di difendere e tutelare gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori del nostro paese, in tutte le espressioni in cui si esplica il mondo del lavoro; penso alle contrattazioni, agli orari di lavoro, alla salute in fabbrica, agli infortuni. Poi ci sono gli aspetti esterni alla “fabbrica”, in cui il lavoratore diventa cittadino e necessita di servizi quali il CAF, la compilazione della dichiarazione dei redditi, la burocrazia di ogni tipo.

Qual è lo stato di salute del sindacato oggi?      

Se non di crisi, si può comunque affermare con molta franchezza che il sindacato si trova in un momento di difficoltà, come d’altronde tutta la società italiana (in particolare il settore pubblico, inteso non solo come apparato statale ma come tutto ciò che riguarda la sfera pubblica). Pensiamo alla componente politica che sta vivendo un momento di conflitti allucinanti. La crisi riguarda tutta la società e quindi il sindacato, che ne è una parte fondamentale, non ne è esente. Detto questo e in linea di massima, malgrado tutte le problematiche che ci sono, è uno stato di salute abbastanza buono. Come UIL abbiamo 2 milioni di iscritti a livello nazionale. Ma a differenza di CGIL e CISL, che certamente hanno dalla loro i numeri composti però in maggioranza quasi assoluta dei lavoratori iscritti nella categoria dei pensionati, la UIL può vantare una vasta maggioranza di iscritti ancora lavoratori.

E a livello territoriale?

Stesso discorso a livello territoriale, nonostante il tessuto industriale della città ormai sia pressoché esaurito. C’è poco delle grandi aziende di una volta come la Marellli, la Necchi, la Snia Viscosa, e così via. Nonostante questo, siamo molto presenti nel pubblico impiego. Siamo il primo sindacato al Policlinico di Pavia; siamo primi al comune di Pavia e di Voghera; primeggiamo anche all’ASP pavese.

Soffermiamoci su questo aspetto: se il sindacato è parte fondamentale del sistema paese, perché ha perso l’appeal che aveva un tempo?

Non ha perso l’appeal. In passato avevamo acquisito un potere, soprattutto negli anni ’60 (il famoso ‘68, l’autunno caldo) perché c’era una notevolissima carenza nella classe politica. Il sindacato a quel tempo commise quello che personalmente considero un errore: sostituirsi alla politica arrogandosi un potere che di fatto era di spettanza politica e partitica. Ci siamo sostituiti e abbiamo invaso un campo che non era prettamente nostro. Per questo si dice che avessimo un appeal maggiore rispetto a quello percepito oggi. Oggi invece siamo tornati ad occuparci dei veri interessi del sindacato: le lavoratrici e i lavoratori. Non critico quel momento storico, anche perché se non ci fossimo stati noi i lavoratori avrebbero contato ancora meno. Abbiamo oggi un ruolo squisitamente sociale nel mondo del lavoro. La UIL in particolare coniò, in uno dei suoi congressi, lo slogan “il sindacato dei cittadini”. Ci siamo vantati di occuparci non solo del lavoratore sul posto di lavoro, ma del lavoratore nella società. Non intacchiamo il ruolo della classe politica; al limite facciamo proposte alla politica sugli aspetti che più ci riguardano.

Allontanandosi dalla sfera politica, dalla cosiddetta stanza dei bottoni, il sindacato non rischia di perdere potere e quindi la sua capacità di indirizzare la società?

Direi di no. È vero che stare nella stanza dei bottoni condiziona le decisioni. Ma ognuno ha il suo ruolo. Un vecchio proverbio lombardo dice “ofelè fa el to mestè”, cioè “pasticcere, fai il tuo mestiere”. Quello che noi pretendiamo è che chi deve fare il proprio mestiere, quindi chi legifera, lo deve fare tenendo conto delle nostre proposte. Vale la pena di sottolineare che negli ultimi anni, data la crisi economica, non abbiamo fatto quasi mai ricorso alla principale arma che ha il sindacato contro le nostre controparti (datori di lavoro e governo), cioè lo sciopero. Questo perché avrebbe significato mettere a repentaglio la vita del paese, la produzione, i mezzi di trasporto, e così via; avrebbe anche significato fare ulteriori danni alla busta paga dei lavoratori, dato che in un momento di crisi anche una sola giornata di lavoro ha peso nel bilancio familiare. A differenza di altri paesi quali l’Inghilterra che ha delle casse di resistenza che garantiscono un “rimborso” ai lavoratori scioperanti, il sindacato italiano deve trattenersi dal peggiorare la situazione.

Mi sorge spontaneo chiederle allora quali sono stati i grandi successi e fallimenti del sindacato in generale, della UIL in particolare, e suoi.

Se partiamo dall’ultima parte della domanda, ho la presunzione di pensare di non aver mai fallito. È vero che se dovessi parlare di me risulterei un po’ presuntuoso, quindi invito chi vuole saperne qualcosa a leggere il mio libro. Tornando a noi. Le conquiste del sindacato sono note a tutti. Si pensi alla vita che facevano le lavoratrici e i lavoratori. Ora abbiamo un orario di lavoro accettabile, il sabato e la domenica liberi, una lunga lista di servizi sociali. Per quanto riguarda i risultati negativi, sono quelli che riguardano questi ultimi anni. Ne cito uno su tutti: le pensioni. Se è vero che l’età, e lo dice uno che è “datato”, media è aumentata, è vero di conseguenza che l’età pensionabile si sia alzata, come anche il numero dei pensionati. A questo dato però non coincide un gettito fiscale adeguato, poiché non c’è più corrispondenza col numero di giovani impiegati nel lavoro, che coi loro contributi dovrebbero pagare le pensioni degli anziani. Bisogna allora porsi delle domande. Perché tutta questa acrimonia che c’è da parte di alcuni partiti politici verso i cosiddetti immigrati? Menomale che ci sono. Tenuto conto che in Italia non si fanno più figli e che la natalità è fra le più basse d’Europa, menomale che ci sono gli immigrati che pagano i contributi, che fanno figli che garantiranno anche in futuro la copertura per le pensioni. Detto questo, il punctum dolens su cui ancora non siamo riusciti a farci sentire è l’aumentare dell’età pensionabile, insostenibile soprattutto nelle categorie dei lavori cosiddetti usuranti. Anche qui bisogna ancora battagliare poiché non siamo ancora riusciti ad ottenere quanto voluto.

Riguardo ai giovani che non lavorando non creano la copertura finanziaria per il funzionamento del paese, cosa fa e cosa può fare il sindacato per stimolare le parti sociali affinché creino lavoro per loro?

Siamo impegnati quando trattiamo col governo e con gli imprenditori a creare nuovi posti di lavoro. Il governo parla adesso di creare una sorta di incentivi a favore degli imprenditori che permetta maggiori assunzioni di giovani. E questo, affrontato nel modo giusto, ci può colpire in modo positivo. Ci vuole un maggiore impegno di tutta la classe politica e imprenditoriale. Noi siamo per la valorizzazione di un grande patrimonio del nostro paese: il made in Italy. Bisogna puntare su prodotti e produttori che portino avanti la qualità, affinché questa si diffonda e crei nuovi posti di lavoro. Bisogna puntare sulle tecnologie e sulle esportazioni.

A proposito di tecnologie: in un mondo in cui si prospetta l’intelligenza artificiale, in cui si immaginano fabbriche completamente autonome e in cui si può ipotizzare l’obsolescenza della figura dell’operaio, quale sarà il compito del sindacato?

Sono convinto che l’uomo, in un modo o nell’altro, avrà sempre un grandissimo ruolo. Se anche dovesse scomparire il lavoro manuale lo giudico positivamente dal punto di vista di un’ottica di miglioramento delle condizioni della vita. Ma poi ci sono tanti e tali settori che oggi non vengono presi in considerazione, o considerati solo marginalmente, che offriranno tanti sbocchi lavorativi. Pensiamo agli Stati Uniti che sono sempre stati un passo avanti sull’innovazione. Là ci si chiedeva: “Che fine faranno i lavoratori con tutte queste macchine?”. Eppure gli USA non sono ancora morti di fame, hanno un PIL di tutto rispetto, un’occupazione maggiore rispetto a molti altri paesi. Sostanzialmente ritengo che finché ci sarà l’uomo, si troverà sempre un qualche tipo di sbocco lavorativo in cui impiegarsi.

Parlando di USA è però innegabile che una modernizzazione del sistema abbia emarginato in qualche modo i lavoratori semplici e che quindi si sia creata una forte differenza nella società tra poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi perché in grado di studiare e quindi di fare lavori diversi dall’operaio. Non si rischia quindi di creare un sistema elitario di ricchi preparati e di poveri esclusi?

Questo è un fenomeno generale, presente purtroppo anche in Italia. È uno degli argomenti su cui il sindacato si batte. C’è da dire che la situazione è cambiata. La scuola oggi è accessibile a praticamente tutti grazie ad incentivi e aiuti che sostengono lo studente più povero anche nello studio di alto livello. Il vero problema è che oggi si arriva a prendere titoli di studio come il diploma in un sistema in cui però non c’è lavoro dopo i 5 anni. O ancora, un dramma è quello dell’Università italiana che registra uno tra i più alti tassi di abbandono degli studi. Per non parlare del livello talvolta poco pratico di alcune facoltà che non insegnano un lavoro vero, ma solo molta teoria; in questo modo si spinge lo studente che può permetterselo, a proprie spese o con borse di studio, a studiare altrove per imparare velocemente un lavoro. Ci vuole anche una selezione da parte dello studente riguardo la facoltà da scegliere. Siamo un paese fatto di avvocati.

Ultima domanda. Il sindacato tende ad essere vecchio, sia come età anagrafica dei componenti, sia come comunicazione. Cos’ha quindi da offrire alle nuove generazioni?

È vero; il dramma è però sempre di carattere economico e di una diversa valutazione del ruolo del sindacalista. Ai miei tempi, come dicono gli anziani, c’era molta vocazione (usando termini clericali). Non dico che questa sia stata nel passato una missione, ma sicuramente si sentiva una passione per questo lavoro. Io ne sono l’esempio. Ero un giovane impiegato in una grande azienda, con un buon posto di lavoro, uno stipendio più che decente, ma ho rinunciato a queste cose per intraprendere la carriera di sindacalista; sotto il profilo economico mi ha fatto perdere un mare di soldi, ma mi ha dato moltissime soddisfazioni di carattere morale, tant’è che mi sento perfettamente gratificato e realizzato. Ecco, oggi non è più così. Oggi il giovane che arriva al sindacato chiede qual è lo stipendio, quali sono i giorni di vacanze, l’orario di lavoro. Tutte cose che in un lavoro come questo non ci sono. Non ci sono limiti agli orari di lavoro, non c’è certezza sullo stipendio dato che dipende dal contributo degli iscritti. Di certo arriva, ma non con cadenza perfetta come nelle grandi aziende o nei settori pubblici. Spesso quindi, se non ci sono giovani in questo ambiente, non dipende dal sindacato, ma da una società che cerca altre cose.  L’invito che faccio ai giovani che vogliono cimentarsi in una carriera del genere è quello di munirsi dello spirito di intraprendenza appena descritto con l’intento di mettersi al servizio delle lavoratrici e dei lavoratori. Se qualcuno avesse queste intenzioni, io sarei disponibile a dargli una mano.

Quota 80” verrà presentato nell’Aula Scarpa della Sede Centrale dell’Università. Dalle 10:30 si alterneranno importanti personaggi pubblici quali il Sindaco Massimo Depaoli, Giorgio Benvenuto, Stefano Mantegazza e Carlo Barbieri. L’invito di Ferrari è rivolto a tutti coloro che possono trarre vantaggio da un mondo sindacale che si sta ristrutturando per venire sempre più incontro ai veri soggetti della società: i lavoratori, i cittadini, le persone.

 

 

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