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“Il Serpente e l’Arcobaleno” e il ritorno degli zombie nel vodoo

di Claudio Lacirignola

Attenzione: l’articolo potrebbe contenere spoiler.

Prima che i “camminatori” di The walking dead dominassero la scena e ricreassero lo stereotipo del morto vivente, lo “zombie” – parola che in passato indicava, in alcuni paesi dell’Africa, un dio serpente, e che, col tempo, si è trasformata nel termine che tutti noi conosciamo – ha subito, con gli anni, diverse revisioni e trasformazioni. Dal primo film sui non-morti della storia del cinema, White zombie (1936, Victor Halperin), che rese famoso il celebre Bèla Lugosi, si sviluppò un sottogenere dell’horror con protagonisti, appunto, i morti viventi; tra i più famosi: I walked with a zombie (1943 Jaques Tourneur) e Vodoo Island (1957, Reginald Le Borg). Caratteristica peculiare del primo periodo di questo sottogenere era l’incipit: il risveglio dei morti. Questi, infatti, risorgevano tramite un rito (solitamente vodoo) ad opera di uno stregone, che si rivelava infine il vero antagonista; lo zombie era quindi un mezzo per raggiungere i malvagi scopi del negromante. Perfino il make-up e le movenze erano completamente diverse, lontano dalle odierne figure cadaveriche e decomposte: si limitavano infatti ad un viso pallido, occhiaie nere e movimenti legnosi; a volte, potevano perfino parlare e comportarsi come un normale essere umano. Con l’inizio della Guerra fredda, lo sviluppo in scala mondiale di virus e vaccini, e la costante paura di un conflitto atomico che terrorizzava il mondo intero, gli zombie movie mutarono la loro essenza, grazie soprattutto a registi come George A. Romero e l’italiano Lucio Fulci. Il morto vivente, diventa il risultato di esperimenti falliti, causati soprattutto da virus letali che si propagano nell’atmosfera, creando una catastrofe mondiale e riducendo la popolazione ad un cumulo di sopravvissuti, che lottano giorno per giorno cercando la cura per debellare l’infezione. Da questo momento, si distingueranno nei vari afilm lo zombie vero e proprio e l’infetto che, a differenza del primo, non è morto ed è solitamente più violento e veloce, ma non immortale (un esempio perfetto di questo filone, lo troviamo in 28 giorni dopo di Danny Boyle). La più importante opera di questa seconda fase, che ha ispirato le generazioni future ed ha effettivamente inserito la figura dello zombie nella cultura popolare, è senz’altro la Trilogia degli zombie del sovracitato George Romero: Night of the living dead (1968), Dawn of the dead (1978) e Day of the dead (1985).

Nel 1988, il regista Wes Craven, reduce dal successo di Nightmare – Dal profondo della notte (1984), che diventerà presto una fortunata serie cult horror, dirige ciò che per molti critici rimane il suo capolavoro: The Serpent and the Rainbow (Il Serpente e l’Arcobaleno). La pellicola tratta dall’omonimo romanzo di Wade Davis, resoconto di una terrificante storia vera. Segna un ritorno alle origini cinematografiche dello zombie, resuscitato quindi tramite rito vodoo e non ad opera di virus o catastrofi artificiali. Vittima e non carnefice, il non-morto di Craven si discosta nettamente dai canoni romeriani imposti all’epoca, risultando a tutti gli effetti un essere umano risorto, capace di parlare e provare sentimenti; lo spettatore arriva infatti a provare pietà per quest’anima in pena, che non suscita né timore né disgusto.

Haiti, 1985: l’antropologo americano Dennis Allan (interpretato da un giovane Bill Pullman) si reca sull’isola per conto dell’Università di Harvard, per indagare sul misterioso caso di Christophe Duran (Conrad Roberts), un uomo deceduto nel 1978, ritrovato vivo e vegeto dalla sorella. Grazie all’aiuto della psichiatra Marielle Duchamp (Cathy Tyson), Allan scoprirà che ciò che trasforma le persone in zombie è una polvere ottenuta miscelando potentissimi veleni tramite un complesso rito vodoo. Verrà ostacolato dal perfido negromante Peytraud (Zakes Mokae), capo della polizia politica del dittatore Jean-Claude Duvalier, che farà piombare i due protagonisti in un oscuro vortice di magia e superstizione, nel quale realtà e sogno sembrano scambiarsi continuamente i ruoli in una perversa danza tribale, fino al sorprendente epilogo.

bLa trama e, di conseguenza, l’ambientazione, sono incentrate, come appurato in precedenza sulla cultura vodoo, su un contesto onirico difficile da decifrare, che confeziona una pellicola altamente suggestiva, improntata più sull’aspetto psicologico che materiale. Se da una parte il film guarda indietro verso i sovracitati White zombie ed I walked with a zombie, dall’altra propone un intreccio che si discosta nettamente dalle inquietanti atmosfere delle due pellicole, preferendo non abusare di effetti visivi e scene particolarmente forti. Craven priva il morto vivente di tutti i frangenti cannibalistici che all’epoca dell’uscita del film lo stereotipavano, rendendolo un ambiguo burattino nelle mani del bokor, lo stregone, vera minaccia nell’intreccio. Praticamente uguale fisicamente alla controparte viva, fatta eccezione per lo sguardo allucinato e sofferente, lo zombie di Craven può perfino parlare: sarà infatti il non-morto Christophe Duran ad avvertire il protagonista dei diabolici piani del negromante. Non è quindi un’epidemia la causa della trasformazione, bensì una polvere ricavata da diversi veleni e parti animali, preparata tramite un complesso procedimento – stando a quanto ci dice l’autore del libro, esiste davvero – che il regista mostra furbamente solo in parte.

Tralasciando l’aspetto psichico, è bene sottolineare il fattore medico, dato dall’incipit che spinge Dennis Allan a viaggiare verso Haiti, ovvero scoprire il composto che trasforma le persone in zombie per studiarlo ed usarlo in campo medico, e dal finale, in particolare nella frase che chiude il film, una sorta di riflessione sull’ingrediente finale della polvere, la tetrodossina.

Ancor più di rilievo, la componente politica che permea la storia e che tratta della reale situazione ad Haiti. Peytraud è infatti il braccio destro del dittatore Jean-Claude Duvalier, esistito veramente, colpevole di aver instaurato una dittatura avvalendosi della tortura, arrivando ad uccidere i suoi avversari politici, e soggiogando la popolazione con la religione vodoo. Craven riporta su pellicola questa nera pagina di storia mostrando la guerra civile in atto in quel periodo parallelamente alle vicende dei due protagonisti. Le stanze dei supplizi e le grida delle vittime, sommate alla crudeltà dei carnefici, suscitano ancor più spavento delle scene che dovrebbero effettivamente incutere timore.

Il Serpente e l’Arcobaleno riesce ad essere contemporaneamente un tributo alla prima fase del cinema “zombesco”, una ventata d’aria fresca all’horror che in quegli anni spopolava, tra infezioni di morti viventi e killer assetati di sangue, ed uno spaccato (pur non presentandosi come film storico) dell’Haiti degli anni ’80, dalla politica alla cultura etnica. Un cult da non perdere, che siate appassionati o no di horror, partorito dalla mente di uno dei registi che più hanno contributo a rendere questo fantastico genere ciò che è oggi.

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