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Il rimorso nello stivale: Borrowed Time

Premetto: il riferimento a Toy Story del titolo dev’essere uno dei più stupidi mai realizzati da mano umana; specialmente nel contesto di una produzione drammatica. Converrà servirsi qui, a mo’ di apologia, di un’altra citazione, forse più matura,  decisamente più Western: “Scusate, non ho saputo resistere!” [1].

Grazie.

Il Western è, per sua natura e fin dalle sue origini, un genere canonico e canonizzato. Nato in quegli Stati Uniti che ne hanno vissuto la storia e diffusosi poi in tutto il mondo, esso, pur declinato in una miriade di accezioni diverse, torna inevitabilmente a ribattere su temi ricorrenti. Gli originari prodotti americani sono quasi sempre ancorati a sistemi di valori puritani fortemente idealizzati, alle vicissitudini di uomini retti, spesso sceriffi, impegnati sia dai malvagi di turno (di volta in volta pallidi figuri in nero o abbronzati e baffuti banditos) sia da un ambiente ostile e inesplorato. La declinazione italiana del genere, lo Spaghetti Western [2], cambia le carte in tavola, mettendo in scena anti-eroi dalla moralità ambigua, ugualmente interessati all’oro, alle donne e alla vendetta: vagabondi dalla moralità grigia e dal passato nebuloso, privi di nome o appellati per soprannome; maestri del quick draw le cui abilità marziali ricordano quelle dei rōnin giapponesi che hanno contribuito a ispirarli.

Le note da carillon di qualche orologio musicale risuonano attraverso la storia del Western a partire da Per qualche dollaro in più (1965), secondo, immortale capitolo della “Trilogia del dollaro” di Sergio Leone; a sua volta pietra miliare e vero e proprio punto d’inizio della declinazione nostrana del genere.

I paesaggi, perlustrati in lungo e in largo a cavallo, incontrano le variazioni che possono essere offerte da una buona decina di stati americani (riprodotti a schermo per pellicole straniere in località europee sufficientemente simili alle originali, dalle sierre iberiche alle Dolomiti), senza aspirare mai a creare un’ambientazione realmente differente dalle altre.

Persino le armi sono sempre le stesse: la Colt Single Action Army, pistola a tamburo il cui anno storico d’invenzione (1873) non le impedisce di figurare in una miriade di rappresentazioni filmiche della Guerra Civile (1861-65), e un qualunque modello di Winchester, corpulento commissario di polizia dalla carnagione zafferano e dalla prole disag… fucile a leva guadagnatosi la nomea di “arma che conquistò il West”.

Questo è il Western, all’americana, all’italiana o in qualunque altra variazione: una combinazione di stereotipi, un affollarsi di variazioni su temi fissi.

E Borrowed Time [3], fatica “extra-lavoro” di due animatori Pixar (Andrew Coats e Lou Hamou-Lhadj) durata la bellezza di un lustro, gli stereotipi li sfrutta tutti: buoni, cattivi, cavalli, armi. Un panorama mozzafiato che, lungi dall’essere ricercato in qualche sperduta sierra o in altre copie-carbone del deserto americano, viene ricreato tramite una miriade di pixel, granelli di sabbia che si accumulano per dare vita a un setting degno del miglior Western d’atmosfera. Un orologio muto, ma altrimenti non dissimile da quello di Leone, che funge da fulcro della vicenda. Stereotipi che vanno ad accumularsi sull’orlo di un precipizio a sua volta abbastanza familiare, a picco su una distesa rocciosa la cui letale monotonia è spezzata soltanto da un poco convinto fiumiciattolo. Il classico balzo da evitare per una manciata di millimetri.

Questa volta, tuttavia, il precipizio è inevitabile. È sperato, ricercato, bramato, misura e raison d’être di quella manciata di minuti, sei circa: come i colpi di un revolver. Borrowed Time è una storia di rimorso, è la vicenda di un uomo che, traumatizzato in tenera età, capisce di aver vissuto la sua intera esistenza sfruttando del tempo preso in prestito da qualcun altro, e mai restituito. Fisionomicamente simile a un giovane Lee Van Cleef e dotato di due “occhi d’angelo” [4] in perfetto stile Pixar, il protagonista senza nome oscilla sul baratro esistenziale, costretto a rivolgere lo sguardo a un passato che, in un modo o nell’altro, sembrava aver superato.

Il suo è un dilemma concreto, pregnante, adulto. E tale sembra fosse l’obiettivo dei due creatori: dimostrare come la computer grafica possa dare vita a vicende degne di una cinepresa reale; veicolare il dramma attraverso l’animazione digitale.

Andrew, Lou: congratulazioni, tentativo riuscito. Tanto di cappello. Concludo rimandando al sito ufficiale del prodotto per qualunque curiosità riguardo allo stesso o alla crew di produzione: http://borrowedtimeshort.com.

 

[1] Sarà forse doveroso notare come il correttore automatico mi abbia inizialmente sostituito Borrowed con Borromeo. Questa è indubbiamente Pavia. Toy Story, a sua volta, ha subito una sconcertante trasformazione in Tony Story.

[2] Un personalissimo ringraziamento alla correttezza politica. Legittimità vorrebbe una dicitura nostrana di Hamburger Action per qualunque blockbuster venga sfornato da Hollywood e mandato in proiezione nelle nostre sale.

[3] Letteralmente “tempo preso in prestito”. La locuzione inglese “to live on borrowed time”, sfruttata spesso in presenza di malattie terminali, si riferisce a un’esistenza o a una parte d’esistenza vissuta sull’orlo dell’ultimo precipizio, con aspettative di vita ridotte e senza certezze riguardo la propria ineluttabile expiration date. Un’espressione agghiacciante.

[4] Nomignolo del villain interpretato proprio da Van Cleef nell’ultimo e forse più noto film della Trilogia leoniana, Il buono, il brutto e il cattivo (1966).

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