Letteratura

Il punto letterario (13) – Un mercoledì sera da brivido

di Elena Di Meo

Il terrore non è che la percezione mentale più raffinata della paura. Attraverso una combinazione fatale di guai e sensazioni, è possibile tratteggiare il profilo di quel demone della perversità che si ingrossa tanto più sono le sfide accettata da noi, dimentichi di ogni timore come di ogni pericolo. Ciò ci induce a commettere azioni che non dovremmo commettere, solo per il gusto di confondere l’opinione pubblica e dar prova così dell’abilità di cui ci boriamo con orgoglio. Ma rimangono pur sempre delle cose che faremmo bene a tenere per noi, onde evitare di bruciarci ancora prima di appiccare l’incendio.
Il guaio in cui mi trovai io ebbe origine da una serie di sfortunati eventi che fecero di quelle ventiquattr’ore una giornata da dimenticare. Ed è oramai pratica collaudata che il metodo più semplice per mettere da parte i cattivi pensieri è farli scivolare nell’oblio ben zuppi d’alcool. Così, seguendo i passi dei miei coetanei, mi recai nel bar che riversa per Strada Nuova i suoi clienti, scusandosi dell’inadeguatezza dei propri locali con la promessa di un numero in più sulla rubrica telefonica dei frequentatori più affezionati. Avevo già fatto fuori un paio di bicchieri quando alzai lo sguardo al cielo, figurandomi le rotondità umane  che avrei dovuto oltrepassare nella traversata diretta al bancone, e per la prima volta, scolpito sulla casa di fronte, notai un angelo. Con il suo braccio marmoreo indicava un punto indistinto verso il Ponte Coperto ed io, guardando in quella direzione, fui seriamente indeciso se attribuire ciò che vidi alla mia vena sognante oppure ai fumi della sbornia:  un altro angelo avanzava brandendo una spada fiammeggiante e ordinava, facendo cenno con la testa, al diavolo rosso appresso a lui di battere con il suo bastone di bambù quell’uno o quell’altro portone. Quell’immagine mi suggerì lo scopo dei due spiriti, ovvero quello di ergersi a portatori di una liberazione che poteva essere conquistata solo con la morte. Allo stesso modo ebbi il sentore della perfetta corrispondenza tra colpi inferti sui battenti e vittime che l’indomani sarebbero state rinvenute all’interno delle abitazioni  colpite dalla sventura.
In un lampo di lucidità, la mia mente percorse entrambe le vie di cui una sola si proponeva come scelta finale. Avrei potuto fingere indifferenza di fronte al quell’orribile spettacolo e continuare la mia opera di demolizione dei ricordi – come del resto sembrava facessero i miei vicini di bevuta. Avrei potuto lanciarmi sugli usci ancora integri e, suonando all’impazzata, addurre una scusa per convincere i pavesi a scendere giù per strada. Ma non feci né l’una né l’altra cosa. Disturbai piuttosto una pattuglia che sostava nella piazza là vicino e alla mia segnalazione: «la peste è giunta fino a noi», fui condotto alla centrale di polizia perché c’era bisogno di un pazzo visionario che allietasse il loro mercoledì sera in servizio. Punto!

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