BirdmenCinema

Il nastro bianco

A volte si ha la sensazione di trovarsi nel cineforum caricaturale del Nanni Moretti delle origini quando si va a vedere delle proiezioni con un ambizioso intento di riflessione, poi ti accorgi che, se ti trovi in quello stato mentale, non puoi che essere nel posto giusto.

Lunedì 17 settembre sono andata all’associazione Jonas Onlus, fondata da Massimo Recalcati e impegnata nella cura psicanalitica delle forme di sofferenza psicofisica contemporanea, a vedere Il nastro bianco, film del 2009 di Michael Haneke.

Con il mio quarto d’ora accademico, arrivo a film appena partito, così da perdermi la breve introduzione, non sempre necessaria a parte le informazioni base che ho prontamente recuperato dalla rete.

Che la cinematografia di Haneke, regista austriaco settantaquattrenne, fosse caratterizzata da immagini crude e da una violenza psicologica penetrante era già per me emerso nella pellicola di Funny games del 2007 (uno dei rari cari di auto-remake dell’omonima pellicola girata dallo stesso regista dieci anni prima); avevo letto parecchio a riguardo, ma davanti a questo film ho capito esattamente che cosa significhi arrivare a creare empatia con la violenza in quanto tale.

In bianco e nero, sceneggiato da Haneke stesso e candidato al Premio Oscar non solo come miglior film straniero ma anche come miglior fotografia, curata da Christian Berger che ama Ingmar Bergman e si vede, il film è ambientato in un piccolo villaggio tedesco nel periodo antecedente la prima guerra mondiale. La vicenda, narrata in prima persona a posteriori da uno degli abitanti del villaggio, sembra inizialmente profilarsi come una sorta di giallo, dove un susseguirsi di strani eventi inizia a prendere una dimensione tragica e si ricerca una sorta di colpevole comune. Ma poi lo zoom spietato di Haneke va a indagare oltre l’apparenza di una piccolo nucleo sociale ben costituito e ci mette davanti alla depravazione e alla cosiddetta banalità del male. Ecco che la scuola e la famiglia non appaiono più come istituzioni atte a tutelare la moralità ma la facciata pubblica, mentre la violenza istillata dall’odio e dalla repressione serpeggia morbosamente in maniera vendicativa andando a punire il debole, il diverso. Haneke ci pone davanti a tutto questo con un asetticismo a tratti spaventoso e del tutto privo di un qualsiasi giudizio morale che lo spettatore medio si aspetterebbe di veder trasudare da una pellicola di questo tipo. La struttura e la trama del film si dissolvono, il tutto si aggroviglia e, complice la fotografia assolutamente perfetta per il mood della pellicola, si finisce ad avere davanti solamente una drammatica cartolina della società tedesca pre-bellica degli anni ’10.

Non è facile, al termine di questi 144 minuti, lasciare spazio per riflessioni solenni. Il film è intimo nella sua grandezza e lascia dentro un senso di tragico che forse bisogna elaborare personalmente, magari con una sigaretta, prima di parlarne.

Ci trovavamo però nel posto giusto per affrontare una pellicola che richiede quel tipo di impegno mentale e con un po’ di titubanza iniziale, il pubblico si è poi fatto coinvolgere e le ragazze che hanno gestito un difficile dibattito finale ci hanno proposto in maniera mai invadente delle chiavi di lettura su quello che avevamo appena visto, soffermandosi su alcune scene e sottolineando quanto la repressione di sé inevitabilmente incanali verso un sentimento di avversione fino ad arrivare a puro odio e capacità di infliggere dolore fisico e in molti casi anche psicologico.

Un film di rara intensità e capacità di indagine psicologica che pone il pubblico in un rapporto di assoluta libertà con la vicenda rappresentata sullo schermo, libertà a tratti spaventosa, che porta quasi ad un rapporto di morbosità nei confronti della violenza minimale che ci troviamo davanti. Una pellicola non per una serata libera ma per una serata in cui non prendersi altri impegni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *