Letteratura

Il male oscuro: Giuseppe Berto alle radici dell’Io.

Molte sono le opere che racchiudono la personale esperienza di un autore, aiutandolo a superare momenti drammatici o ad approfondire tabù personali. Tuttavia, raramente mi è accaduto di imbattermi in una narrazione introspettiva così profonda e completa, crudelmente onesta e spietata quale è  Il male oscuro, romanzo sperimentale di Giuseppe Berto edito nel 1964. Di origini venete, l’autore si avvicina alle lettere dopo un periodo di militanza tra le file dell’esercito, avventura che riesce a rielaborare durante la sua carriera artistica in lavori di stampo neorealista non adeguatamente apprezzati. La svolta giunge appunto con il suddetto romanzo, che ha come soggetto un intellettuale frustrato trasferitosi a Roma in cerca di una fortuna che mai troverà. È il racconto di una vacillante esistenza che, dopo il trauma della morte del padre, cade a pezzi e combatte, anche contro se stessa, per comprendere e sconfiggere una malattia di cui non sa il nome.

Il personaggio che esce dalla penna dello scrittore e la mano che muove il calamo si identificano, entrambi vittime di profonde afflizioni. Venute alla luce al termine di un travagliato periodo di blocco, creativo e soprattutto emotivo, queste pagine si immergono nella crisi di un uomo provato dalla sofferenza del vivere quotidiano. Un testa a testa con la propria fragile interiorità, un tentativo di catarsi disperatamente richiesto da una psiche piegata da un cancro invisibile. Per realizzare tutto ciò, la scelta è quella di dare vita a un alter ego su cui proiettare fobie e idiosincrasie, con il quale eseguire una danza che percorre interamente, in lungo e in largo, gli spazi enormi e insondati dell’Io, fino a spingersi negli angoli più oscuri e repellenti, con il preciso intento di risalire alle radici dell’angoscia (termine che insistentemente ricompare nel libro). Perché proprio di questo si tratta, di un insensato tormento che trasforma ogni minimo dettaglio in dolore cosmico. I segnali ci sono tutti, sin dalla più tenera età, ed emergeranno soltanto successivamente, durante un’analisi attenta del proprio vissuto incoraggiata da uno specialista.

Il flusso di coscienza è la modalità più adatta per rendere questo senso di agitazione e annientamento: come un filo che si tira da un gomitolo fino ad esaurirlo, così fuoriescono i pensieri, gettati senza alcun filtro sulla pagina. Sfilano, uno dopo l’altro, tutti i temi della psicoanalisi, dalla natura impulsiva e quasi violenta dell’età infantile, agli istinti repressi, all’autoritaria figura paterna, attingendo a piene mani dal repertorio freudiano. In uno slalom tra complessi edipici, pulsioni sessuali e slanci religiosi, distinzioni tra Es, Ego e Super Ego, sensi di colpa atavici e al di là di tutte queste tematiche, il punto nevralgico è la volontà da parte del personaggio- autore di liberarsi da un’oppressione che lentamente muta in prigionia.

2324845_1432769Alla base di tutto è il disorientamento totale, l’assenza di certezze a cui aggrapparsi, in un’ansia infinita di abbandono e terrore di essere lasciati in balia di se stessi. Il protagonista parla spesso di nevrosi, ma è una nevrosi che tende alla depressione: e più esattamente ciò accade nella definizione precisa che nella post-fazione Berto stesso fornisce, tratteggiando la nevrosi come “una malattia basata sulla paura. Paura di tutto: della morte, della pazzia, della gente, della solitudine, del movimento, del futuro.” Se si vuole, nulla di troppo lontano dalle forme di disagio psicologico di cui siamo testimoni sempre più frequentemente nel nostro quotidiano.

La paralisi provocata dalla paura è pressoché totalizzante, tanto accusata dalla mente fino ad avere ripercussioni tangibili sul piano fisico. Sono altissimi i passaggi in cui viene tracciato un quadro estremamente dettagliato di malattie cliniche con la loro sintomatologia, in realtà tutte riconducibili a un’ipocondria scatenata da panico e ossessioni. Ancora più impressionante è la precisione con cui sono esposte le varie fasi delle crisi di ansia, dalle vertigini all’immobilità articolare alla progressiva alterazione della realtà, fino al bisogno, anzi, all’urgenza, di avere altre persone intorno per placare l’affanno. Il nevrotico scivola dunque in quella necessità che a buon diritto potrebbe essere chiamata dipendenza dall’altro, una figura esterna stabile a cui aggrapparsi e nella quale andare a caccia della felicità che in se stessi è introvabile. Il ritratto umano che ne risulta è grottesco e a tratti distorto, magnificamente disegnato da espressioni di fragilissimo egoismo: un uomo adulto, solo, che cerca di convincere se stesso di amare sua moglie e la loro figlioletta, di essere pago di gite in montagna, di una bella casa e di chiacchiere di cortesia, quando ogni sentimento non è che puro utilitarismo al fine di mascherare la desolazione. Nient’altro che un’enorme impalcatura di menzogne che rimpicciolisce e svilisce chi la crea. Se il profilo dell’inetto è innegabile influsso di Italo Svevo, così come lo sono il conflittuale rapporto con il padre e la terapia psicoanalitica intrapresa per arrivare alle radici del problema, un altro grande antecedente si rivela essere Carlo Emilio Gadda, dalla cui Cognizione del dolore l’autore veneto dichiara di aver preso il titolo dell’opera. Due sentieri tracciati che verranno percorsi solo per poco, dal momento che il romanzo (o non-romanzo, come anche è definito)  se ne distacca per intraprendere una strada autonoma, in quanto racconto dichiaratamente personale che lancia una sfida, quella di calarsi sempre più giù nell’abisso umano, senza timore di scatenare un turbine di reazioni negative nel lettore, siano esse ostilità, nausea, ripugnanza.

Se ci sia possibilità di riemergere da tutto questo, non è facile a dirsi. Benchè sembri che le cure abbiano dato i propri frutti, l’ultima scena vede il protagonista in solitudine, senza famiglia, di fronte a un vasto spettacolo naturale, coi suoi sogni infranti, il suo Io destrutturato, fatto a pezzi e rimontato, la quiete parzialmente ritrovata, la malinconia per gli affetti lontani, immobile in una realtà in movimento di cui non vuole fare parte. Se ciò pare quasi suggerire uno squarcio di quotidiana speranza al termine di tutto il nichilismo, si insinua il dubbio che la guarigione si possa identificare solo con una rassegnazione pacifica, sotto la quale giace “molta commiserazione per la gloria che non verrà mai e la malattia che resterà sempre”.

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