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Il Macbeth di Branciaroli: quando il testo supera il teatro

Quello che fino al 6 novembre andrà in scena al Piccolo di Milano è un Macbeth in cui convive una duplice intenzionalità: da un lato la volontà di mantenersi legati ad un modello tradizionale di teatro, utilizzando una recitazione eccessivamente veemente, inutilmente enfatica e a tratti fastidiosa; dall’altro la realizzazione di una rilettura radicale del testo shakespeariano e la ricerca di espedienti che richiamano immediatamente la modernità. Se quel vecchio modello attorale depotenzia il testo, grazie ad altre trovate la credibilità dell’opera è salva.

Breve nota introduttiva sulla scenografia: una struttura geometrica, interamente nera, con sistemi di botole interne, i cui vari elementi vengono investiti all’occorrenza di significati oggettuali diversi: un cubo diventa tavolo, trono, ecc.

Scenograficamente siamo nel dominio del simbolico, con un cambio scena segnalato da titoli proiettati sulla parete. Inutile dire che la riduzione all’essenziale è una trovata ormai invalsa, può incontrare il gusto del pubblico ma non brilla certo per originalità.

Ciò che merita attenzione è la profonda riflessione del regista sull’opera, che attraversa interamente la rappresentazione.

La prima scena è aperta dalle tre streghe. Con lo sconforto di chi teme di aver sbagliato spettacolo, ci accorgiamo che si esprimono in inglese. Sospiro di sollievo: la pièce prosegue in italiano. Più in là noteremo che l’uso della lingua inglese sarà riservato alle tre sorelle.

L’intenzione di Branciaroli è forse quella di presentarci due mondi radicalmente differenti, al fine di marcare questa alterità: il mondo umano, segnalato dalla lingua a noi familiare, e il mondo occulto. Quest’ultimo è il mondo-altro, dominato da un’ambiguità estrema, dove lecito e illecito diventano indistinguibili. L’effetto è straniante. Se l’obiettivo era questo, l’operazione è riuscita.

Ma c’è di più. La lingua dei tre spiriti è utilizzata in alcuni momenti anche da un altro personaggio: Lady Macbeth.

La metamorfosi linguistica di Lady Macbeth l’abbiamo al momento del suo primo soliloquio, nell’atto di invocare le potenze occulte. Lady Macbeth è il tramite tra i due mondi, una figura che ci viene consegnata in tutta la sua complessità. Non siamo più di fronte all’immagine, appiattita da una lunga tradizione di rappresentazioni, della donna corruttrice. Ciò che il regista ci vuole mostrare è la figura di una donna che ha rinunciato al suo essere donna, una sorta di entità androgina che ha abdicato al suo spirito femmineo per brama di potere. E su questo punto insiste molto, servendosi di un’immagine visivamente molto forte. Nell’atto di invocazione, l’ormai prossima regina di Scozia si toglie e getta con rabbia un panno imbrattato di sangue mestruale, lampante gesto di negazione di sé.

Lady Macbeth tornerà ad esprimersi in inglese in un’altra scena, quella del sonnambulismo, momento di delirio in cui ripercorre gli spargimenti di sangue che hanno permesso l’ascesa al trono del marito. Qui ci appare in uno stato psicologico diverso: la spietatezza e lucidità precedenti si sono dileguate, al loro posto troviamo smarrimento e ansietà. Il cambio di stato è reso cromaticamente da un cambio d’abito. Si passa dal rosso al bianco: uno slittamento semantico immediatamente comprensibile, come a voler rappresentare il ritorno alla condizione di originaria debolezza a cui s’era inizialmente sottratta.

Guardando al protagonista non rimane da dire molto.

Interessante l’escamotage con cui viene reso il senso di sdoppiamento vissuto da Macbeth: nei suoi soliloqui non è solo; mentre parla compare una figura interamente vestita di nero, una sorta di presenza umbratile, la versione personificata della coscienza alla quale si confessa.

Se nel complesso lo spettacolo non riesce a far rivivere l’opera shakespeariana, ha l’indubbio merito intellettuale di lasciare spazio alla riflessione sul testo, problematizzandolo e aprendolo a nuove interpretazioni. Usciti dalla sala non avrete vissuto la potenza del Macbeth, ma vi sarà venuta voglia di rileggerlo: e non è un esito scontato.

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