AttualitàPolitica

Il Governo del Cambiamento si è dimenticato degli studenti

Il governo taglierà 4 miliardi alla scuola nei prossimi 3 anni. Non può definirsi del cambiamento un governo che si è dimenticato degli studenti. Di quei milioni di giovani che popolano gli atenei italiani e non percepiscono nessun segnale positivo da parte del mondo del lavoro nel quale si stanno preparando a entrare. Il governo s’impegna invece a trovare i finanziamenti per il reddito di cittadinanza, spacciando per “lotta alla povertà” l’illusione di un vago assistenzialismo. I futuri architetti, ingegneri, scrittori e giornalisti, hanno il dovere e l’obbligo di credere di poter cambiare la società, di renderla migliore, più efficiente e più eguale, ma probabilmente non si sentono rappresentati da questa classe politica che come altre, continua a ignorarne i bisogni. E tra le manovre di un governo incompetente e lo spettro della recessione, aumenta l’esodo dei laureati all’estero.

Il reddito di cittadinanza non eliminerà la povertà.

Il 48,8% degli italiani si dice favorevole alla legge di bilancio, presentata dal governo M5S-Lega e approvata dal Parlamento lo scorso 30 dicembre dopo mesi di proclami bellicosi contro le regole ingiuste imposte dalla Commissione UE, e dopo giorni di arringhe contro i traditori della sacra patria. Eppure il governo del cambiamento ha conquistato sempre più consenso portando avanti con ostinazione le battaglie iniziate durante la campagna elettorale. Il reddito di cittadinanza, a favore di quei 5 milioni di poveri, disoccupati o sottoccupati che vivono con poche centinaia di euro al mese. Le pensioni, con lo smantellamento della Legge Fornero e l’introduzione di Quota 100. Sono misure che hanno lo scopo di intervenire su settori precisi della società, con la speranza di stimolare un mercato del lavoro stagnante. Ma ancora una volta il governo dimostra di essere miope, credendo di poter incidere sul mercato del lavoro agendo con specifiche riforme su sacche ben delimitate della popolazione. Per influire su un ecosistema complesso, e causare un vero cambiamento non bastano certo misure di questo tipo. Sembra utopico credere che il reddito di cittadinanza possa realmente risolvere il problema della disoccupazione. Stando a quanto è stato raccontato da Di Maio, le persone che verranno raggiunte dal reddito sono 5 milioni. Dovranno impegnare due ore al giorno nella ricerca di un’occupazione, più 8 ore settimanali in lavori socialmente utili non retribuiti. Lo Stato si impegnerà a proporre fino a tre offerte di lavoro congrue al candidato, che ne potrà rifiutare due, se non accetterà la terza verrà escluso dal programma.  Ma i punti critici sono due. Dei 10 miliardi stanziati per la manovra, 9 andranno a finanziare il reddito e uno sarà usato per ristrutturare il sistema dei centri per l’impiego. Credere che 1 miliardo basti per rendere efficiente un’istituzione obsoleta e dimenticata come i centri per l’impiego è impossibile. Così come, è impossibile credere che i 5 milioni di beneficiari del reddito, ricevano nel giro di un paio d’anni 3 offerte di lavoro congrue alle proprie competenze. Gli studenti invece, coloro che investono tempo e risorse proprio per acquisire le adeguate competenze per affrontare il mondo del lavoro, non solo si trovano a dover affrontare un mercato saturo, ma sono stati dimenticati da un governo che spaccia per “lotta alla povertà” l’illusione di un vago assistenzialismo. Come conseguenza oggi un giovane laureato viene incentivato ad abbandonare il paese, e lo Stato perde le risorse investite per la sua istruzione, oltre a forza lavoro specializzata. Si calcola che il percorso di studi di un singolo cittadino costi allo Stato circa 77mila euro fino al diploma, una spesa che cresce fino a 158mila euro per un laureato in triennale, e arriva a 170mila euro per un laureato in magistrale. Il costo di un dottore di ricerca è invece di 228mila euro. Se rapportiamo questa spesa ai 28mila laureati che lasciano ogni anno l’Italia, possiamo stimare che l’emigrazione dei professionisti costi ogni anno allo Stato circa 4,5 miliardi di euro (fonte dossier statistico immigrazione). Praticamente metà della manovra finanziaria predisposta dal M5S per il reddito di cittadinanza.

Gli studenti sono stati “tagliati” fuori dalla manovra del cambiamento

L’esecutivo ha ceduto alla correzione dei conti pubblici voluta dall’UE, che dovrebbe assicurare per il 2019 un deficit nominale al 2,04%, a fronte del 2,9%. L’asticella è stata ulteriormente abbassata non per crudeltà nei confronti dell’Italia, ma perché l’intera manovra non stava in piedi. Il premier Conte ha garantito i benefici dovuti dagli “effetti virtuosi” della manovra grazie alle sue politiche espansive. Ma secondo la Commissione, il governo ha appena tagliato le stime di crescita per l’anno prossimo da un improbabile 1,5% all’1% e gli effetti della spesa saranno probabilmente pari a zero. Nel frattempo sono previsti tagli ovunque, pari a 10 miliardi in totale, che toccheranno sia la famosa riforma pensionistica della Quota 100, sia quella per reddito di cittadinanza. Il motivo della bocciatura è il contenuto della manovra: zero coperture credibili, zero investimenti mirati, zero progetti di lungo respiro, solo assistenzialismo asfittico che non avrà alcun effetto sui “moltiplicatori del Pil” di cui hanno parlato a lungo gli economisti vicini al governo. Una vera presa in giro.  Tra i penalizzati dai tagli per poter finanziare la manovra troviamo proprio gli studenti, cioè i giovani, coloro che realmente possono essere fautori di un cambiamento futuro.  Ma il governo, attualmente prevede di risparmiare ben quattro miliardi sulla scuola nei prossimi tre anni. Contraddicendo quelle che erano le promesse di appena un anno fa, quando Di Maio diceva di abolire Buona Scuola e legge Gelmini, ma siamo ancora lontani. Niente più prove Invalsi, le prove sono ancora lì. L’alternanza scuola-lavoro sarebbe sopravvissuta soltanto su base volontaria: non è andata così.  E più fondi, più assunzioni, più contratti a tempo determinato, non solo per gli insegnanti, ma anche per il personale non docente. Forte anche del consenso di chi lavora nella pubblica istruzione e di chi la frequenta, categoria spesso snobbata anche dai cacciatori di voti, il governo poi ha vinto le elezioni. E per far fronte ai finanziamenti delle roboanti promesse della campagna elettorale, l’istruzione si è rivelato il fronte più sacrificabile. Sono i dati a parlare chiaro, l’Italia spende poco per l’istruzione: secondo le stime dell’Ocse il 28% rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea ma, nonostante gli investimenti risicati – circa il 4% del Pil – questi soldi si perdono se una volta completati gli studi il laureato decide di lasciare il Paese.

Se sei laureato lo stato t’invita ad andare all’estero. Gli studenti non faranno i conti con il peggiore dei tagli della storia della scuola italiana, ma questo certo non agevolerà una situazione già di per sé critica. A dimostrarlo anche il numero sempre più elevato di studenti che decidono di completare il loro percorso di studi all’estero, e l’esodo dei laureati che non trovano lavoro in Italia.  Secondo l’Istat negli ultimi cinque anni sono circa 244mila i giovani con più di 25 anni che si sono trasferiti all’estero, di cui il 64% possiede un diploma o una laurea. Dal 2013 al 2017 il numero degli emigrati laureati è salito del 41%. Nel solo 2017 i laureati a fare i bagagli sono stati 28mila, il 4% in più rispetto al 2016. L’Italia perde il proprio capitale umano e si priva delle risorse di più alto profilo, e così il rilancio diventa ancora più difficile.  A incentivare i giovani a metter mano al passaporto sono anche i dati allarmanti riguardo la disoccupazione. L’Ocse ha calcolato che nei nostri confini solo il 64% dei laureati fra i 25 e i 34 anni ha un lavoro, a fronte di una media europea dell’83%. La situazione è drammatica soprattutto per le lauree umanistiche: se il tasso di occupazione per i laureati in ingegneria è dell’85%, e quello delle materie economico-giuridiche è dell’81%, per loro la percentuale scende al 74%. Forse il vero intento del governo è quello di evitare che lo stato vada completamente in bancarotta, tanto ci sarà sempre qualcuno a regolari i conti, come è già successo con la Commissione UE quando a posto un freno all’aumento del deficit per finanziare la Manovra del cambiamento. E saranno poi quei commissari dell’UE, che i conti li sanno fare davvero a prendersi la colpa della mancata ripresa. Nel frattempo vengono ignorate quelle che sono problematiche reali, che se risolte potrebbero davvero cambiare questa nazione, come investire risorse nell’istruzione e incentivare l’ingresso nel mondo del lavoro dei laureati. Ma probabilmente è più facile accaparrare il consenso degli elettori, bombardandoli con slogan di una campagna elettorale che non finisce mai, illudendoli che lo stato sconfiggerà la povertà con un improbabile tessera di 780 euro.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *