Attualità

Il giorno della crisi

 

di Giovanni Cervi Ciboldi

 

La Grecia potrebbe fallire. L’Italia pare di no. Finora siamo sempre stati abituati a pensare che “siamo troppo grandi per fallire” e “se falliamo noi, crolla l’europa” o almeno “fallisce la Francia”. Tutto vero, siamo solvibili, ma le pensioni degli anziani e i fornitori delle aziende non si pagano in Bot o Btp.
E’ crisi per tutti. I numeri di questo 1 novembre europeo ricordano quelli del crack della Lehmann Brothers: le borse europee lasciano per strada quasi il 5%, Milano addirittura il 7%. A picco soprattutto le banche, che perdono fino al 15% (Intesa).
Per capire come mai sia l’Italia ad essere il paese più sofferente di fronte all’odierna recessione, conviene porre l’attenzione – più che ai titoli finanziari – alla dinamica odierna degli spread. Quello italiano ha toccato il suo picco massimo, oltre il 4%, nei confronti del titolo di stato tedesco: l’Italia è costretta, per vendere i propri titoli, a offrire un interesse maggiore del 6%. Per chiarire quale sia il monito che questo numero racchiude basta evidenziare come, richiamandosi alla storia recente, la soglia del 7% sia il tasso a cui la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo sono stati costretti ad accettare gli aiuti europei per rilanciarsi sui mercati. Usando parole semplici, dopo la giornata di oggi l’Italia in questo momento è il paese più debole d’Europa. Perché?
Nel trasformare questo martedì 1 novembre nella peggiore giornata finanziaria della storia italiana ha collaborato la decisione del governo greco di sottoporre a referendum il pacchetto di aiuti proposto da Bce, Fmi e Comunità Europea, mettendo a rischio la propria sussistenza nell’euro e mettendo una seria ipoteca su una possibile bancarotta. Non è comunque chiaro come la popolazione greca possa avere abbastanza competenze economico-finanziarie per esprimere un voto pienamente consapevole. Tutto per cercare di restare in sella a un paese che a gennaio avrà consumato la prima tranche di aiuti europei, sufficiente a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici. Poi, data la liquidità-zero, dichiarerà bancarotta.
Ma occorre essere sinceri e ammettere che non c’è alcuna sorpresa per i dati di oggi. Lo spread italiano è salito nell’ultimo anno del 133% data l’assenza di prospettive di crescita dovute alla convergenza tra le difficoltà naturalmente scaturite dalla crisi finanziaria stessa e la carenza di politiche di rilancio.
E’ l’ora più buia della crisi. L’inversione di questo trend non è procrastinabile. O il governo vota in blocco i provvedimenti necessari ad adempiere alle richieste europee con la formula della fiducia, affinché le riforme necessarie per la ripresa vengano approvate in blocco e in tempi accettabili, ricorrendo anche al voto positivo dell’opposizione qualora i numeri non gli siano favorevoli; oppure l’intero esecutivo dovrà dimettersi e lasciare il posto a una tecnocrazia che attui senza remore tutte le misure per riprendersi i mercati finanziari.
Il realismo imporrebbe l’immediata eliminazione della prima opzione. La strategia di non mettere a rischio le poltrone attraverso una maggioranza di sicura operatività ha finora fallito su tutti i fronti. E appare ancora meno verosimile, se il maggiore partito d’opposizione continua a chiedere le dimissioni del direttivo e rifiuta la direzione proposta dall’Europa e dall’FMI.
La seconda invece pare ad oggi l’ultima via per la ripresa. La credibilità del governo è oramai al minimo storico, quella dell’opposizione è, se possibile, addirittura inferiore, dato che – conviene essere chiari – una virtuale maggioranza di sinistra non sarà mai in grado, data la frammentaria nuvola di interessi che le gravitano intorno, di attuare riforme tanto scomode quanto necessarie. La migliore idea per arginare questo continuo tracollo sembra allora un possibile governo tecnico. Meglio se guidato da un sostenitore dell’Euro sempre attento alla salute dei bilanci pubblici.
L’esecutivo rimane comunque solo la maschera del problema italiano. Perché solo una completa revisione del sistema contributivo e giuslaburista che ci ha guidato fino a questo punto può restituire lo sviluppo non più posticipabile. Eppure i programmi dell’esecutivo per il futuro sono ulteriori incrementi impositivi e tagli lineari, e le speranze di una riforma del lavoro in una direzione di maggiore flessibilità si scontrano con i veti imposti da più parti. E’ evidente che in questo modo non ci potrà mai essere nessuna crescita che rilanci gli investimenti, e quindi la competitività, dunque le assunzioni, rendendo utopistica una ripresa dei mercati.
Una patrimoniale da 20 punti del pil che azzeri il debito pubblico sarebbe solo l’ennesimo tentativo di rimanere a galla quando oramai sembra impossibile. Farla fruttare, poi, sarebbe forse una ulteriore illusione.
Poi c’è una lettera alla CE. Ma “non possiamo aspettare l’Europa. Tutto dipende da noi”. Ha ragione Napolitano.

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