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Il found footage, un genere nascosto

Found footage¸ più comunemente video ritrovato, è una tecnica registica di cui si sente parlare poco, definita anche come un sottogenere cinematografico facente parte della categoria madre dei mockumentary.

Che paroloni grossi! Facciamo un passo indietro: con mockumentary si indica quel genere cinematografico definito alla buona falso documentario, falso perché per la trama vengono creati eventi fittizi a scopo narrativo. È un genere ampiamente sfruttato dagli autori di parodie e satira, ma negli ultimi anni sta avendo particolare successo applicato al genere horror grazie appunto alla tecnica del found footage. Il fattore di interesse che psicologicamente, in maniera naturale, attira lo spettatore fa credere che una storia spaventosa e fantascientifica sia reale, e per di più che quello a cui si sta assistendo non sia una semplice ricostruzione del reale, ma l’effettivo svolgersi di quei fatti, creando un senso di angoscia e dubbio.

Con il found footage tutto o parte del film è presentato come se si trattasse di un filmato appena scoperto, da qui video ritrovato, o una videoregistrazione amatoriale, spesso lasciata da protagonisti scomparsi o deceduti. Gli eventi sullo schermo sono visti attraverso la telecamera di uno o più protagonisti coinvolti negli avvenimenti, che spesso parlano fuori campo. Questa tecnica cinematografica porta lo spettatore a percepire una sensazione di realismo che difficilmente i film tradizionali riescono ad ottenere. La realizzazione di questi effetti è possibile grazie alla tecnica di ripresa attraverso la steadycam, supporto meccanico mobile su cui viene posta una telecamera controllato da un operatore (steady-man) che gli permette di muoversi liberamente, o addirittura correre, senza che la macchina da lui sorretta riceva vibrazioni od oscillazioni eccessive.
Sono molti i film realizzati utilizzando questa tecnica: The Blair Witch Project è uno dei primi esempi di found footage che possiamo osservare risalente al 1999, più recenti sono REC, Cloverfield, Paranormal Activity, ESP, Ratter. Quest’ultimo si differenzia dai suoi predecessori in quanto è come
se utilizzasse una tecnica di ripresa found footage 2.0: l’evoluzione della tecnologia ha portato ad una evoluzione della tecnica registica.

“Emma arriva a New York per i suoi studi universitari. E’ controllata da un hacker in tutti i suoi dispositivi per registrare i suo momenti più intimi. I feed del video non sono sufficienti però, e lo stalker diventa sempre più ossessivo muovendosi dal virtuale al fisico. Ben presto Emma comincerà a temere per la sua vita, non riuscendo a rendersi conto che la minaccia proviene da tutto ciò che la circonda quotidianamente.”

In questo caso il punto di vista dello spettatore non sono gli occhi della protagonista, come solitamente avviene in un film found footage, la sua esistenza viene seguita attraverso il particolare punto di vista del suo computer portatile, del suo telefono cellulare e di altri dispositivi connessi in rete, in sostanza attraverso quello che gli occhi dello stalker vedrebbero dandoci così l’idea di “spiare” la vita di Emma. In questo modo abbiamo maggiormente la possibilità di entrare all’interno della trama e di viverla in prima persona.
In Ratter la tecnica del found footage è stata molto utile per raccontare attraverso una chiave horror un tema delicato come lo stalking. Negli anni, questo stile è esploso e il ricorrere a questa tecnica cinematografica è diventato una vera e propria moda, anche se per il momento, escludendo i film horror/thriller all’interno di cui rischia di rimanere intrappolata, sono molti i generi ancora inesplorati.

Una domanda che sorge spontanea è “piace o non piace?”, quesito molto difficile in quanto è impossibile dare una risposta universale, qui vengono in ballo i gusti personali. C’è chi sostiene che la telecamera, le riprese, debbono suscitare un carattere oggettivo e chi un carattere soggettivo. La domanda cruciale quindi non è “piace o non piace” ma “narrazione oggettiva o narrazione soggettiva?”

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