Il dolore di una madre

di Tommaso Pepe

So che è difficile, ma vi chiederei di guardare questa foto, anche solo per un istante. È agghiacciante e quando l’ho vista, sfogliando il giornale, la prima reazione è stata di pensare ad altro, di passare oltre. Ma  non ce l’ho fatta. Mi ha suscitato un sentimento di pena e dolore troppo forti. Vi chiederei di meditarci assieme, anche solo per un minuto.

Nella foto si vede la madre di Federico Aldovrandi. Il cartellone che tiene in mano è a sua volta una foto del figlio, riverso a terra, morto. Io non credo che una madre debba essere costretta ad una cosa simile. Rievocare ancora una volta la morte del figlio, in una maniera così diretta, esporre pubblicamente un dolore scioccante.

 

Che cosa è accaduto? Otto anni fa, nella notte del 25 settembre 2005, Federico Aldovrandi venne fermato dalla Polizia per un controllo di routine. Il controllo finì però in tragedia: si ebbe una colluttazione nella quale Aldovrandi perse la vita. I quattro agenti di polizia coinvolti nella morte sono stati condannati a 3 anni e 6 mesi di reclusione per omicidio colposo.
Che cosa è accaduto giovedì? Un altro gruppo di agenti di polizia, appartenenti ad un piccolo sindacato, il COISP, ha voluto manifestare solidarietà nei confronti dei colleghi condannati, che per effetto dell’indulto si sono comunque visti ridurre la pena. Gesto eticamente discutibile, ma legittimo.
Che cosa però in tutto questo è moralmente inaccettabile e umanamente assurdo? Il sit-in si è tenuto avanti al municipio di Ferrara. La città di Federico ma anche il luogo dove la madre, come ogni giorno, si reca al lavoro. I poliziotti sono andati a manifestare sotto le finestre della madre di un figlio assassinato.
La donna non ce l’ha fatta a sopportare il dolore e il senso di avvilimento, verso un oltraggio contro la memoria del figlio e la propria dignità di madre. È scesa in strada, assieme a due colleghe, e per difendersi non ha potuto far altro che rivendicare nudamente la propria sofferenza. Per una norma antica, non scritta, ci è vietato aggredire chi sta già soffrendo, obbedendo ad un senso di pietà più profondo di qualsiasi legge scritta. Ha esposto una foto sconvolgente, quella del proprio figlio, disteso sulla strada, ed ha guardato in silenzio gli uomini venuti a mettere in dubbio la veridicità del suo dolore. I poliziotti le hanno voltato le spalle hanno sollevato illazioni sulla veridicità di quella foto, poi se ne sono andati.

Come è possibile? Quale significato può mai avere una manifestazione così barbara e inutile come quella di giovedì? Come si può tormentare, umiliare a tal modo una madre che ha già sofferto la pena più grande? Andare sotto la sua finestra e solidarizzare con gli uomini che sono responsabili della morte di suo figlio, senza più alcun residuo di umanità, di quel rispetto per le vittime che anche nelle controversie peggiori impone di non aggredire chi ha già sofferto e pagato in maniera spropositata e senza colpa alcuna.
Federico Aldovrandi è morto, il processo che doveva chiarire le responsabilità della sua scomparsa si è concluso. La sentenza che è stata emessa può essere discussa. Ma che senso ha offendere la memoria di una persona che non c’è più, e scaricare su una madre, dopo il dolore, anche la vergogna di vedere la morte di suo figlio oggetto di dileggio, di una manifestazione “contro”? Contro che cosa poi?

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