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Il corpo umano tra sacralità e curiosità scientifica dall’antica Grecia al Museo Anatomico di Pavia

“Com’è dentro?” chiede Ibn Sina al suo giovane apprendista, Rob Cole. Parole sussurrate che risuonano nell’aria tesa della notte prima dell’esecuzione alla quale i due sono stati condannati e che frantumano il muro di paura, risentimento e colpevolezza che aveva diviso il maestro e l’allievo.

Sono loro i protagonisti di Medicus, film tedesco del 2013 basato sull’omonimo romanzo di Noah Gordon e diretto da Philpp Stölzl.

Rob Cole, ragazzo intraprendente e animato dal desiderio di studiare l’arte medica, riesce a coronare il suo sogno a Isfahan, una città della Persia, ma viene scoperto mentre sta dissezionando un corpo umano e processato insieme al suo maestro Ibn Sina, uno dei più grandi medici del mondo islamico antico.

Ma perché una pratica per noi oggi normalissima e anzi indispensabile, rischia di costare la vita ai due personaggi?

Alla base di questo divieto ci sono motivi prevalentemente scaramantici e religiosi: sin dall’antica Grecia, infatti, il corpo era circondato da un’aura di sacralità e si credeva che, se fosse stato violato dopo la morte, l’anima che vi aveva risieduto non avrebbe trovato pace o addirittura non avrebbe avuto accesso all’aldilà e, inoltre, il responsabile di tale atto sacrilego sarebbe diventato impuro.

Nel film, infatti, Rob Cole si azzarda a dissezionare il corpo dell’uomo solo dopo che questi, in punto di morte, gli ha chiesto di dare le sue carni, prive di importanza per la sua religione, in pasto agli uccelli.

Illustri esponenti del mondo medico come Ippocrate, Galeno e lo stesso Ibn Sina basarono dunque le loro teorie non sull’osservazione diretta di organi e tessuti, ma piuttosto su osservazioni di tipo esteriore, oppure sullo studio delle parti interne degli animali, che si credeva fossero assimilabili a quelle dell’uomo.

La prima novità rispetto a questa regola si ebbe nell’Alessandria del III secolo a.C., dove furono attivi medici come Erofilo di Calcedonia ed Erasistrato di Ceo, che noi oggi ricordiamo per alcune importanti scoperte sui vari apparati derivate proprio dalla loro attività di dissezione.

Si trattò comunque solo di una breve parentesi che si sarebbe presto chiusa e non si sarebbe più riaperta fino al Medioevo.

Se nell’età antica la religione fu un ostacolo per il progresso medico, lo stesso ruolo non le si può attribuire durante i “secoli bui”: per il credo cristiano il corpo altro non era che l’involucro dell’anima e le sue sorti non influivano in alcun modo sullo spirito. La dissezione divenne dunque un vero e proprio strumento di ricerca che permise di confutare le errate teorie galeniche, e acquisì importanza anche a livello didattico.

È in questo scenario che si colloca la figura del fiammingo Andrea Vesalio, prima titolare della cattedra di medicina e chirurgia di Padova e poi medico personale dell’imperatore Carlo V, autore di un’immensa e preziosissima raccolta di libri raggruppati sotto il nome di De humani corporis fabrica. Non si tratta di un semplice manuale, ma di un testo arricchito da illustrazioni precise del corpo umano realizzate da artisti professionisti e frutto delle sue numerosissime osservazioni effettuate dal vivo sia negli anni di formazione che nelle sue lezioni. Infatti, anche durante le ore in aula si occupava personalmente di sezionare il corpo e di spiegare strutture e rapporti dei vari organi, diversamente da molti medici dell’epoca che si limitavano alla sola esposizione e lasciavano il compito del taglio ai cosiddetti chirurghi.

Questa situazione di apertura, tuttavia, non fu presente in maniera uniforme in tutta Europa: ad esempio, nel Regno Unito, nel XVIII secolo venivano ancora concessi pochissimi corpi per la ricerca scientifica, e questo aveva portato alla nascita di un vero e proprio mercato nero di cadaveri, gestito dai cosiddetti “trafugatori di corpi”. La situazione si colorò di tinte ancora più fosche quando, tra il 1828 e il 1829, a Edimburgo, vennero uccise nel giro di pochi mesi ben sedici persone, a opera di William Burke e William Hare, allo scopo di vendere i loro corpi agli anatomisti. Pochi anni dopo, finalmente, una legge aumentò il numero di cadaveri disponibili per gli studi medici.

E del risultato di secoli di dissezioni e osservazioni se ne trova un esempio anche qui a Pavia, nel Museo Anatomico in via Forlanini. Fondato verso la fine del Settecento, curato e ampliato da uomini illustri quali Rezia, Scarpa, Panizza e Zoja, ospita una delle più antiche collezioni anatomiche italiane, composta da circa duemila pezzi. Accuratamente riposti entro teche e scaffali si trovano organi vari, realistiche riproduzioni in cera, feti di gemelli siamesi, cadaveri essiccati e sistemati in posizioni dinamiche, e una serie di circa duecento crani.

Se vi avventurerete tra le sale del Museo, lo stupore guiderà il vostro cammino e, proprio come Rob Cole, resterete senza fiato di fronte alla complicata bellezza di questa macchina della vita che è il corpo umano.

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