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“Il cittadino illustre” non è un fenicottero morente

Per la Rassegna “Cinema sotto le Stelle”, a Pavia, “L’importante è… / Witching ist…” conoscere e raccontare qualcosa di nuovo sul Mondo: forse il rustico paesino di Salas, polveroso assembramento di tuguri in Argentina, è l’adesione più fedele a questo proposito. In una delle modeste abitazioni salensi nasce Il cittadino illustre (2016), di Gàston Duprat e Marion Cohn, pellicola che – presentata in anteprima mondiale alla 73ª Mostra del cinema di Venezia – ha procurato la candidatura al Leone d’oro ai due registi, ormai coppia artistica consolidata dal 1993.

Il film, scelto per rappresentare l’Argentina per l’Oscar al miglior film straniero nel 2017, raccoglie consensi perché non vuole soltanto ricostruire la fine di un’avventura creativa svuotata dell’etica vibrante di chi scuote le coscienze. Il “cittadino illustre” Daniel Mantovani non è soltanto uno scrittore: è lo straniero a metà, è quello incapace di fuggire, il vagabondo che torna sempre. È chi sale sulla Transiberiana dell’arte, direzione il più lontana possibile dal Passato, ma finisce per tornare eternamente indietro. Mantovani ci sembra il fenicottero che per innumerevoli secondi vediamo sullo schermo, in acque putride e abbandonato ad una lenta agonia.

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Il premio Nobel per la letteratura incarna l’intellettuale hessiano in cura rinvigorente presso la biblioteca di casa propria, impegnato con ostinazione ad evitare ogni occasione mondana, ogni evento che gli ricorda di essere diventato un bullone di un “sistema-arte” che lo esclude dal fremito della composizione. Eppure una gioia anticipatrice attraversa subitaneamente i suoi occhi quando gli si presenta la possibilità di tornare nel paesino natale della lontana Argentina per ricevere l’onorificenza più alta: quella di “Cittadino illustre” di Salas. Decide inaspettatamente di partire, e noi con lui, su una vecchia Fiat che percorre campi coltivati, ammaliati da una quiete bucolica inattesa. E tuttavia un’ombra impalpabile si allunga sulle casse di limone e sulle caverne rocciose: come in un oscuro presagio, con il viso metà in ombra, e sul frinire delle cicale, Daniel ci racconta una vicenda di paese grottesca e intrisa di una brutalità che sperimenterà sulla sua pelle.

Il merito dei registi è di raccontare la vicenda del “figlio di Salas” attraverso un filo cangiante che si dipana in direzioni sempre nuove: i toni spiritosi e le derive trash delle celebrazioni oscurano il mito dell’artista tormentato in cui avevamo scelto di credere durante i primi minuti, e la languida nostalgia del ritorno comincia a diluirsi tra i muri fatiscenti e la gaiezza morbosa dell’accoglienza paesana. Dinnanzi agli ostinati tentativi dei concittadini di ritrovarsi nei romanzi, di creare un legame di identificazione con quelle pagine che non comprendono ma che possono far “diventare Salas interessante”, l’ironia sbiadisce e l’accondiscendenza acritica si spezza. Il velo è stato sollevato e Salas, prima inginocchiata e servile, si erge nella grandezza meschina dei suoi costumi: il “cittadino illustre” diventa il “cittadino indesiderato”, e non solo.

AUTOBOMBA

È inevitabile il parallelismo con Dogville (2003), di Lars von Trier: c’è un senso di ostilità diffusa che con spaventosa immediatezza cresce quando alle richieste asfissianti degli sconosciuti il protagonista oppone il principio più logico del do ut des; con fermezza resiste a un malcelato boicottaggio che diventa sempre più perverso durante i giorni di permanenza in paese. Daniel è ormai il demagogo milionario esperto, il “giullare degli Europei”, lo scrittore che dalla Spagna si imbeve di gloria marciando sui detriti di una campagna che rinnega: e ciò è impensabile se si crede che la Letteratura, disinteressata alla speculazione morale, sia il convitato di pietra al banchetto del mondo concreto, senza per questo smettere di essere finzione. È qui che sta la forza del film: come in Von Trier, la linea della contrapposizione manichea tra Bene e Male diventa insignificante. Crolla la distinzione tra l’innalzamento per mezzo dell’Arte e la vischiosità della Tradizione, tra il cinismo della ragione e la supremazia della legge di Natura. È forse credibile che “essere nati lì” è l’unica cosa in comune tra Daniel e i compaesani? Quanto la sua narrativa deve al ricordo dell’azzuffarsi selvaggio, del vandalismo spicciolo, dello squallore dei bordelli solitari?

È però negli ultimi fotogrammi che Duprat e Cohn raggiungono il pieno compimento e l’assoluta verità dell’opera: lo sguardo compiaciuto di Oscar Martinez, Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, ci svela che Daniel, magari, non è quel fenicottero morente. Nei suoi romanzi ci sono tracce indelebili di Salas, e né i personaggi né il loro creatore possono sottrarsi al gioco dell’ipocrisia e della rinnegazione: il narratore non ha mai lasciato il Nuovo Mondo, potendo continuare a “sentire l’estate del proprio paese, anche durante l’inverno”, attingendovi per una finzione sempre nuova e reale quanto la vita stessa.

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