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IJF18 giorno #2: le illusioni di Perugia

Il nostro secondo giorno ad IJF18 può essere riassunto brevemente in una sola parola, ma se così facessi non sarebbe un articolo. Svegliatici relativamente presto per la stanchezza accumulata, ci ritroviamo stranamente riposati nonostante la vistosa scomodità del nostro giaciglio. Un bel divano letto da poco più di una piazza e mezza per due persone, con materasso spesso almeno 10 centimetri, un cuscino che definirlo molle è riduttivo e una rete piantata fra le costole. Nonostante questo, alle 9 del mattino di venerdì 13, ci sentivamo piuttosto freschi e pronti a tutto. Quanto ci illudevamo. Da bravi economisti che non siamo (va ricordato il viaggio con Flixbus che dovrebbe avervi fatto intendere la nostra povertà universitaria), la sera precedente avevamo comprato l’occorrente per farci dei fantastici toast da passeggio, così da non perdere tempo a pranzo risparmiando inoltre sui locali del centro. Peccato che insieme a pane, formaggio, salumi, insalata per costruire dei panini gourmet che Cracco e la sua pizza non sanno niente, abbiamo fatto incetta di tutte le cose meno indispensabili che ci capitavano a portata di mano. Il piano low budget nel giro di una spesa era già andato in fumo. In compenso sono venute fuori delle magnifiche crepes alla nutella da far invidia. Ma siccome non siamo qui a scrivere ricette di cucina o a condurre la prova del cuoco (vi bastano 3 uova, mezzo litro di latte e 250 gr di farina), avevamo un compito da assolvere.

Prima di collassare, la sera precedente eravamo riusciti a compilare il nostro programma della giornata grazie ai pratici opuscoli distribuiti insieme a tonnellate di cioccolato Perugina. Tonnellate vi dico. Fra i vari panel, due hanno ragione di essere chiamati in causa. Il primo è quello tenuto da Nereo Sciutto: “Il rapporto fra media, pubblicità e intelligenza artificiale”. Si tratta di una discussione fra varie personalità quali Michele Boroni, un esperto di marketing, Serena Danna, vice direttore digital di Vanity Fair, Annalisa Monfreda, direttrice di Donna Moderna. L’argomento dell’intelligenza artificiale è stato molto discusso durante il festival, ma non ancora così tanto da risultare centrale nella comunicazione del futuro. Ad ogni modo, i vari interventi hanno evidenziato qualcosa sulla quale, da aspirante comunicatore (ok, cerco solo di tirarmela…chiamatemi pure cimmino), non avevo ancora ragionato. In facoltà si parla spesso di questi argomenti, di come Internet, i siti e i social ci targettizzino; di come la SERP di Google cambi in base alle nostre ricerche, di come un’azienda possa raggiungere il suo pubblico in maniera mirata, puntuale e redditizia. Purtroppo, i sistemi classici, quelli dei famosi algoritmi, non sempre sono abbastanza abili e rapidi a capire certi tipi di ricerche e quindi si illudono di conoscerci. A sopperire alle mancanze del sistema in uso, si sviluppano dunque delle intelligenze artificiali in grado di filtrare tutte le ricerche che non ci descrivono. Facciamo un esempio rapido: prendiamo una persona media che lavora, ha una famiglia e che l’età per l’ostello l’ha superata da un pezzo; a ridosso dell’estate comincia a cercare hotel a 4 o 5 stelle. Con il sistema di oggi, Google probabilmente comincerà a recepire che è una persona quantomeno benestante, gli proporrà dunque dei prodotti costosi, vestiti di griffe blasonate, gioielli, auto e così via. Ovviamente, in buona parte dei casi, quel genere di contenuti si rivelerà ininfluente e di nessuna utilità poiché big G ha semplicemente spuntato una casella in un questionario e l’ha etichettato come persona benestante invece di “persona in cerca di comodità per una settimana l’anno”. L’intelligenza artificiale allora entra in gioco togliendo tutti i casi fortuiti, le ricerche una tantum, i prodotti comprati solo una volta e non in linea con gli altri. In pratica analizza tutta la nostra cronologia e cerca di farsi un’idea realistica di ciò che siamo e quindi di ciò che vogliamo comprare e cercare. Smette di illudersi e in questo modo le aziende stesse hanno un nuovo modo di coprire la fetta di mercato che davvero è interessata ad un prodotto e non chiunque si trovi per sbaglio a comprare un braccialetto d’argento come regalo per un’amica.

Il secondo panel illuminante della giornata, e non solo, è stato “Immigrazione: per una comunicazione positiva”. I nomi scesi in campo tolgono fin da subito l’idea di un panel buonista, concetto che ha senso di essere declinato. Negli ultimi anni, soprattutto, ma non solo, sul tema del razzismo si è preso ad usare questo termine fumoso e antipatico. L’identikit del buonista è quello di qualcuno che dice o fa cose buone per aiutare il prossimo, nel caso specifico i migranti, e che secondo i detrattori lo fa solo per chissà quale tornaconto personale e tutto può essere riassunto in: e allora perché non li ospiti a casa tua? Detto in parole povere, il buonista che non è solo pieno di parole e basta, è colui che un tempo sarebbe stato definito  buono; gli si vuole dare un’accezione negativa, lo si vuole sbeffeggiare come se fosse un’idiota senza speranza che non vede come gira il mondo. Le motivazioni per cui lo si usa in questi toni sono varie, a detta di alcuni, ma quella che più di altre è forse attinente è la seguente: la perdita della memoria storica e il benessere economico ci hanno fatto dimenticare cosa significa aiutare. Messi di fronte a persone buone/che cercano di aiutare gli altri, soprattutto i deboli che vediamo come alieni, i “non buonisti” si sentono in difetto, poiché il contrario di buono è cattivo e nessuno vuole sentirsi il cattivo della storia.

Detto questo, a tener banco sono Mario Morcellini, commissario AGCOM, Paolo Brivio, sindaco di Osnago, Paola Springhetti, direttrice di Reti Solidali, Paolo Giulietti, vicario di Perugia, Maria Rita Valli, direttrice de La Voce. Il fulcro dei loro interventi è sostanzialmente un’analisi di ciò che oggi accade a livello mediatico quando si parla di immigrazione. Se accettiamo il termine buonista come sensato, dico fin da subito che questo incontro non lo è stato. Nessuno ha negato che una cattiva gestione dell’immigrazione sia una questione da affrontare, ma il problema non possono essere le persone, non quelle che cercano soltanto una vita migliore. L’esempio più tangibile è quello portato dal sindaco di un paesino di 4,5 mila abitanti che, secondo i dati portati, è casa per oltre 600 stranieri, circa il 16% del totale. Questo dato è importante poiché la percentuale è nettamente superiore a quella nazionale che si aggira intorno al 10% (regolari, arrotondati a 12% con i non regolari). In un paesino del genere –  racconta il primo cittadino – tutto questo multiculturalismo ha portato benefici. Lavoratori per le aziende dei dintorni, una cultura di ampio respiro, nuovi rapporti umani in un mondo globalizzato. Per non dire badanti per gli anziani o giovani che formeranno le future generazioni. Giunti alla costatazione che dopotutto gli stranieri non sono il male, bisogna chiedersi il perché si ha una percezione così negativa.

La prima risposta è data dalla disintermediazione: siamo sempre meno pronti ad accettare le indicazioni delle istituzioni, non ci fidiamo, pensiamo che ci imbroglino anche quando ci mettono nero su bianco i dati di fatto (viene portato il famoso esempio della percezione degli stranieri in Italia ritenuti intorno al 30% della popolazione, quando in realtà sono un terzo di quelli indicati). Tendiamo a dar retta sempre di più a coloro di cui ci fidiamo, agli amici, ai parenti. Non importa che abbiano la terza media e che abbiano sentito qualcosa al bar da Gianni l’ubriacone, o che abbiano una vasta esperienza in un determinato campo. Questo è ovviamente favorito dai social network che amplificano con le condivisioni e danno a tutti la possibilità di esprimersi, anche quando non ci sarebbe nulla da dire.

Altro problema strettamente collegato è quello delle fake news (si ricordano a proposito le foto di Samuel L. Jackson scambiato per migrante vestito alla moda con i famosi 35 euro) alimentate da un giornalismo che rincorre la notizia cercando di darla più velocemente degli altri invece che meglio. Le soluzioni proposte dai relatori sono un sano criticismo verso quello che leggiamo e il racconto delle vere storie delle singole persone, in modo da ricordare a tutti che si parla di uomini, donne, bambini e anziani che hanno avuto una vita altrove e che se avessero potuto sarebbero rimasti – sto per dirlo – a casa loro. In sintesi quindi l’informazione, e tutti quelli che essa raggiunge, vivono l’illusione di un’emergenza che non esiste poiché emergenza è solo qualcosa di improvviso, e non di strutturato come è ormai l’immigrazione.

Avrei voluto stringere la mano a Morcellini, ma ahimè era una vana illusione anche questa. E d’altronde in mezzo a cotanta gente preparata, professionale e famosa è difficile non illudersi di contare qualcosa noi stessi. Certo, non è così, ma possiamo e forse dobbiamo continuare ad illuderci che un giorno saremo dalla parte opposta del palco.

Ps: l’ultima illusione è il nostro piano di uscire dopo cena. Anche stavolta la nostra pigrizia e stanchezza non hanno voluto sentir ragione.

Baci da Perugia.

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