IJF18 giorno #1: le lezioni di Perugia
Il modo migliore di partire è quello di perdere un treno. A dirla tutta, non è che l’abbia perso. È piuttosto lui che si è perso, chissà dove, chissà quando. Grazie alle tempistiche della provincia, un’ora dopo mi dirigevo a Milano. Ore 22:15, stazione di Lampugnano, che certamente tutti conosceranno per i suoi innumerevoli pregi, cioè nessuno in particolare. Nonostante tutto, sono riuscito a raggiungere il punto di partenza di quel capolavoro che è Flixbus. Marciapiede C, 22:45 ancora nessuno. “Hey, siamo sicuri che sia il giorno giusto?” “Sì” – rispondono gli altri tre pellegrini del giornalismo – “ed è il posto giusto?” “Sì” – rispondono ancora una volta con sicurezza sempre minore. Aspettiamo. Ormai pronti a cercare un metrò di ritorno verso casa, ecco apparire la luce. Niente tunnel, solo due fari su sfondo verde. Colpa di Google immagini, mi ero fatto un’idea fin troppo entusiasta dei bus. Tavolini fantastici per quattro persone, Wi-Fi velocissimo, prese della corrente, bagni da far invidia alla stanza delle necessità di Neville. Peccato che tutto si sia tradotto poi in sedili leggermente più comodi dei classici, Wi-Fi con YouTube e Netflix bloccati, presa USB e basta (+inconsapevolezza+pc quasi scarico = troppi film messi in lista e pochissime possibilità di vedere checchessia). Il bagno in qualche modo ha mantenuto le aspettative: un posto magico, come per Paciok. Una luce accecante che si sprigionava ad ogni apertura, come un forziere in qualche film anni novanta del tipo che Italia 1 inserisce nella sempre qualitativa “che fantastica avventura”. 6 ore e 55 minuti più tardi, 3 pause sigaretta (grazie alle quali facevamo ritardare la ripartenza del convoglio) dopo, una sosta all’autogrill, una scelta cinematografica infelice (Jeckie, 2016: non guardatelo se siete di quelli che tendono ad addormentarsi sui mezzi in movimento, soporifero. O almeno spero sia colpa dei sobbalzi del motore) e due bottiglie d’acqua dopo, all’alba di giovedì 13, ore 5:40, siamo infine giunti a Perugia come Francesco I alle porte di Pavia nel 1525: bloccati un anno ad aspettare il momento propizio. Bhe, ok, forse è stata solo un’ora e venti e forse non abbiamo neanche dovuto combattere sanguinosamente. Ma ciò non significa che non abbiamo lottato contro qualcosa. Qualcosa come il nostro sonno. Appena 24 ore dall’ultima sveglia.
La prima cosa che ho imparato di Perugia è che, se il sole non è ancora sorto e siete alla stazione Umbria Jazz, dovete seguire le indicazioni per la mini metro, salire le scale (abituatevici, e anzi prendetela come una preparazione atletica a tutte quelle che scalerete di lì a breve), occupare abusivamente i tavolini di un bar ovviamente chiuso e tirare fuori le carte. Tre partite dopo a scala quaranta, non saranno passati neanche 20 minuti. In atroce attesa, passano anche i restanti giri infiniti di lancette e finalmente i cancelli del metrò si spalancano. Meravigliosa visione, è l’arrivo della navetta. Non immaginatevi l’infinita coda di vagoni di Milano: è una singola vettura, molto compatta, che arriva e parte ogni 2 minuti circa. Il che lo rende il sistema di trasporti più efficiente che riesca ad immaginare. Un continuo andirivieni di vagoni, nessuna preoccupazione di perdere una corsa e in più, essendo sopraelevata, man mano che si sale verso la città, ci si gode un panorama che fa patire un po’ meno la lunga attesa. L’impatto con Perugia non è facile, nessuno è pronto a tutte quelle rampe. Né mai, né tantomeno alle 7 del mattino. Figurarsi poi con un trolley al seguito che ormai da ore ti segue producendo un fastidiosissimo rumore che pian piano si conficca nel cervello e già ti abbandoni all’idea che ti accompagnerà per il resto della vita come una brutta colonna sonora. Fortunatamente così non è stato, ma le scale continuavano a fissarci e dovevamo affrontarle. Con la luce morbida del mattino e i tempi dilatati dei primi umani in giro, le nostre versioni zombie si dirigevano verso quella che in quel momento sembrava la cosa più importante del mondo: la colazione. “La colazione è il pasto più importante” – direbbe qualche nutrizionista o giù di lì; ecco, il concetto è questo, ma sostituiteci con dei tossici in astinenza e avrete più o meno una chiara idea di quello che eravamo in quel momento. Arrivate quasi le nove, portiamo le nostre stanche membra verso la magione; ad attenderci la padrona di casa che ti aspetteresti in una sitcom, o come immagineresti la signora Hudson se fosse italiana. Una donna simpatica e stravagante che ci spiega confusamente tutte le incredibili funzioni di una casa: letti, bagno, cucina, chiavi. Ma chiusasi la porta alle nostre spalle, parte il momento che ricorda i vecchi tempi con la conquista dei posti in fondo al bus: le corse pazze alla ricerca dei letti migliori. Salto i particolari della toelettatura e finalmente, dopo un lasso di tempo ragionevole ma non troppo, ci rendiamo conto che niente ci sposterà dai nostri giacigli. Ci sbagliavamo. Il pranzo ci avrebbe spostati di lì a poco per insegnarci una preziosa lezione: i supermercati di Perugia sono minuscoli; e dico senza tema di smentita che probabilmente hanno appeso le nostre foto da qualche parte all’ingresso: io non posso entrare. Non contento della lezione, ho chiesto ulteriori ripetizioni tornando verso casa carico di sacchetti. Vi ricordate le scale? A loro non piace cambiare – comincio a citar fin troppo Harry Potter – ma gli piace fare sgambetti. Credo di aver perso una caviglia. Ci siamo accordati per lasciarla tranquilla su quel gradino. Magari passerò a recuperarla prima di ripartire.
Dopo un lauto ma raffazzonato pranzo, ci aspettava la vera sfida. “Dai, non sarà così tremendo” – dicevamo cercando di convincere noi stessi piuttosto che gli altri – “anzi, probabilmente sarà interessante”. Ancora una volta non ci avevamo preso. 30 ore di veglia comportano il raggiungimento del quarto cielo o qualcosa di misticamente simile; una specie di limbo simile al dormiveglia costante durante qualche lezione universitaria soporifera. Situazione che portò tutti e quattro a concludere una sola soluzione percorribile: tornare a casa e riprovarci con calma il giorno dopo. Da qui in poi c’è soltanto del cibo, di conforto per sentirsi ancora vivi e non cedere fra le braccia di Ade Morfeo, un po’ di vino acqua frizzante, perché le bollicine ci ricordavano il mercoledì universitario alternativo passato sul bus, e molta stupidità. Nulla di nuovo in buona sostanza. 40 ore di veglia dopo, c’era soltanto molto sonno da recuperare.
Ma IJF18 è solo all’inizio e questa era la prima, inutilissima giornata. Baci da Perugia.
(grasse risate di sottofondo)