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IJF17 #3– Free Turkey Media

Usare il proprio profilo Twitter per criticare le politiche governative e ri-condividere delle vignette satiriche di politica interna possono essere dei reati punibili con la reclusione? A questa domanda dovrebbero rispondere tutte le persone arrestate, poste sotto processo o addirittura imprigionate nella Turchia di Erdogan.
La situazione per come viene dipinta da Yavuz Baydar (P24), Gulsin Harman (International Press Institute, IPI) e Efe Kerem (Dekadans.com), negli interventi “Tuchia: attacco ai giornalisti” e “Turchia: oscuramento di internet una minaccia crescente per il giornalismo”, è drammatica, preoccupantemente aggravata rispetto all’anno scorso.
Nella stessa Sala del Dottorato, per IJF16, si discuteva del processo a porte chiuse contro Can Dündar, caporedattore di Cumhuriyet (il principale giornale di opposizione turco), condannato a cinque anni di prigione per “aver rivelato segreti di Stato” e commesso “atti di terrorismo” (Dündar ha scritto numerosi articoli sui traffici di armi tra l’esercito turco e i miliziani dell’ISIS). All’epoca, tra i discussant c’era anche Kadri Gürsel, redattore di Miliyet rimosso dall’incarico dopo un tweet critico nei confronti del governo quindi editorialista di al-Monitor, giornale online di politica mediorientale.
Oggi, nel 2017, Can Dündar è stato rilasciato e vive in esilio in Germania, mentre in prigione è stato mandato Gürsel, con accuse ridicole per il buon senso, ma politicamente molto serie. La stessa sorte hanno subito tanti altri giornalisti (ma anche politici, curdi principalmente) accusati ingiustamente di atti di propaganda terrorista.
Secondo Gulsin Harman, i giornalisti turchi si distinguono in cinque categorie: gli imprigionati, i licenziati (soprattutto dopo il fallito colpo di Stato di giugno 2016), quelli obbligati all’auto-censura, coloro che lavorano per una testata internazionale ma sono costantemente molestati su internet dai troll e infine i giornalisti turchi indipendenti che però devo affrontare una miriade di processi legali. Un’analisi in apparenza molto semplice, ma in verità molto complicata. La legge è costantemente manipolata dal potere politico per mettere a tacere le opposizioni e per imporre misure cautelari di emergenza. Dopo il fallito colpo di Stato, Erdogan interruppe completamente l’accesso a internet per evitare di far uscire le notizie. Efe Kerem, spinto da altri feroci provvedimenti precedenti, aveva già iniziato a tracciare tutti i disservizi (rallentamenti e interruzioni) di internet. Mettendo in paragone il periodo precedente e successivo al colpo di Stato, conclude che l’oscuramento è stato usato in modo sempre più indiscriminato e frequente. Il governo è perfino arrivato ad ingaggiare giovani come troll per attaccare personalmente, hackerare e screditare online il lavoro dei giornalisti. Kerem mette in luce anche un altro aspetto: negli ultimi mesi i disservizi di internet sono stati molti meno, mentre gli arresti dei giornalisti molti di più, un modo per silenziare le opposizioni al referendum costituzionale (previsto per il prossimo 16 aprile) e controllare direttamente la propaganda della campagna.
Il costante attacco ha avuto una ricaduta sociale molto negativa: i giornalisti sono considerati con crescente diffidenza e le fonti si sono trasformate in informatori della polizia. Nei confronti dei corrispondenti esteri si è invece riversata quella stessa rabbia presente nei violenti discorsi tenuti da Erdogan contro gli Stati Europei.
Alla luce di queste spiegazioni, la campagna mediatica lanciata dal IPI #FreeTurkeyMedia mette in discussione il ruolo di internet, accusato troppo spesso di essere veicolo privilegiato di fake news, che diventa, in realtà, uno strumento fondamentale per la libertà e il diritto all’informazione in una Turchia nella quale i giornalisti non possono svolgere il proprio lavoro senza temere per il proprio posto, o peggio, per la propria incolumità.

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