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#ijf16- Sud-Est Europa: media vs. corruzione?

«Chi vuol fare il giornalista d’inchiesta deve capire che non può pensare di salvare il mondo».

Tra tutte le parole pronunciate durante le tante conferenze che si sono tenute a Perugia nella cornice del Festival Iternazionale del Giornalismo, questa è la dichiarazione che mi è rimasta più impressa. Perché? Forse perché non è ciò che ci si aspetterebbe di sentire assistendo in un panel intitolato Chi combatte la corruzione in Sud-Est Europa: i media o le autorità?  Bisogna ammettere che il titolo richiama alla mente immagini di eroici giornalisti che si ergono a paladini di giustizia, lottando per affermare la verità e portare allo scoperto le connivenze tra politici, affaristi e criminali. Si tratta di un’idea romanzata e autocelebrativa della professione giornalistica? Senz’altro. Peccato però che l’incontro parta subito con un registro scevro di ogni retorica, anzi molto realista.

Gli speakers, provenienti da vari Paesi balcanici, affrontano i diversi problemi pratici legati al mestiere, particolarmente salienti quando si opera in contesti ostili alla libertà di stampa. In questi Stati, le intimidazioni nei confronti dei giornalisti non filo-governativi e le leggi-bavaglio sono la prassi. Dall’impietosa analisi della situazione emerge un punto fermo: l’importanza della collaborazione tra testate, sia per difendere la propria indipendenza, sia per poter condurre indagini più approfondite, anche a fronte di risorse tendenzialmente scarse. Questo è lo scopo che si propongono di raggiungere associazioni come la SEEMO (South East Europe Media Organisation) una rete non governativa no profit di direttori, dirigenti e giornalisti di quotidiani, riviste, radio e canali TV, agenzie stampa e nuovi media nell’Europa centrale e sud-orientale, e il BRIN (Balkan Investigative Reporting Network ). Cooperare diventa tanto più necessario quando si fanno ricerche sulla criminalità organizzata, che ha da tempo imparato quali vantaggi si possono trarre da reti di contatti transnazionali, e ha messo in pratica la lezione con entusiasmo, consolidando i legami nati nel caos scatenatosi durante le guerre balcaniche negl anni ’90.

L’unione dunque fa la forza? Sarebbe troppo semplice e, come già detto, la retorica va ridotta al minimo. Oltre a dover lottare contro scarsità di mezzi, campagne diffamatorie, attacchi fisici e proficui intrecci tra network criminali e politici collusi, il giornalista investigativo si scontra anche con un altro grande nemico: l’apatia del pubblico. Sforzarsi di dare alla luce una buona indagine, che magari ha richiesto mesi (se non anni) di lavoro di verifica e incrocio di fonti, può rivelarsi inutile, se la cosa cade nel disinteresse generale. Questo è ciò che succede quando il risultato di un’inchiesta si riduce a una one-day news, per poi sparire dalle scene senza lasciare traccia. Superfluo dire che la cosa lascia l’amaro in bocca, soprattutto se capita sistematicamente (cosa che però non vale solo per i Balcani, anzi).

La risposta alla domanda posta del panel sembra quindi essere che i media indipendenti non godono di un’influenza sufficiente per poter combattere la corruzione, né tanto meno possono supplire alla latitanza delle autorità. Anzi, spesso i giornalisti devono sprecare tempo ed energie preziosi nel tentare di sottrarsi alla pressione di queste ultime.

Questo incontro suscita quindi sconforto e frustrazione? Solo in parte, poiché si esce dalla Sala con la consapevolezza che il ruolo svolto dai giornalisti investigativi resta fondamentale, come dimostrato dal caso dei Panama papers: ci sarà sempre bisogno di qualcuno che selezioni, verifichi e contestualizzi le informazioni, se si vuole sperare che queste abbiano un impatto. Se poi non si cambia il mondo, basta un po’di sano pragmatismo: magari la prossima inchiesta andrà meglio.

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