Una storia sempreverde
“I ragazzi stanno bene”
di Erica Gazzoldi
“Commedia frivola per persone serie”. Così Oscar Wilde definirebbe The Kids Are All Right (2010), un film diretto e sceneggiato da Lisa Cholodenko (High Art; Laurel Canyon). Questa pellicola è stata fra le più discusse al festival cinematografico di Berlino nel 2010; ha vinto due Golden Globe (“Miglior Film Commedia”; “Miglior Attrice” per Annette Bening) e si è aggiudicato quattro nomination all’Oscar (“Miglior Film”; “Miglior Attrice Protagonista” per Annette Bening; “Miglior Attore Non Protagonista” per Mark Ruffalo; “Miglior Sceneggiatura Originale”).
“Tutto, in questo film, suona vero” recensisce Claudia Puig su USA Today. Effettivamente, il tono piacevole ed intelligente della commedia rifugge da qualunque caduta nella retorica: un merito non indifferente quando si parla di famiglia, adolescenza ed omosessualità. Per questo, The Kids Are All Right avrebbe meritato maggiore visibilità anche in Italia.
Il film è ambientato in un sobborgo della moderna Los Angeles. Qui vivono Nic (Annette Bening) e Jules (Julianne Moore), un’affiatata coppia lesbica di mezza età. Grazie ad una donazione di sperma, hanno concepito due figli, Joni (Mia Wasikowska) e Laser (Josh Hutcherson). Il film comincia focalizzandosi proprio sul quindicenne Laser, il primo a porsi domande sul “padre donatore”. Lo rintraccia la sorella diciottenne: è Paul (Mark Ruffalo), proprietario di un ristorante nelle vicinanze e scapolo impenitente. Ben presto, fra l’uomo e i due ragazzi si crea una solida amicizia, che coinvolge anche Jules. A farne le spese è soprattutto Nic, che si sente derubata della propria famiglia. Il film è giocato su questa fluida ridefinizione dei rapporti fra i personaggi, all’arrivo di un ”intimo estraneo”. La crisi coniugale di Nic e Jules si intreccia con il desiderio di una famiglia da parte di Paul, nonché con le irrequietudini adolescenziali dei figli, che vorrebbero emanciparsi dal “nido”.
“Così oculato nei suoi approfondimenti e così agile nella sua negoziazione di emozioni complesse” (A. O. Scott su The New York Times), il film si presenta come una risposta alle questioni che ruotano attorno al nuovo modello della famiglia gay: la reazione dei figli all’assenza di una figura paterna/materna; il loro desiderio di conoscere chi ha avuto parte nel loro concepimento; cosa significhi realmente essere genitori. The Kids Are All Right è stato ideato con la collaborazione della GLAAD (Gay and Lesbian Association Against Defamation). Forse, non è un caso che la storia sia ambientata in California, dove Harvey Milk (1930 – 1978) fondò il movimento per la tutela dei diritti civili di gay e lesbiche. Sempre qui, nel 2008, l’approvazione referendaria della cosiddetta “Proposition 8” ha reso illegale il matrimonio gay, sospendendo la validità di 18000 unioni già sancite. La California vive, dunque, un dissidio fra apertura e rifiuto verso l’accettazione della famiglia omosessuale nella società.
Lisa Cholodenko risponde con “lucida onestà” (Claudia Puig, ibidem): dipinge una famiglia lesbica in cui, appunto, “i ragazzi stanno bene”; allo stesso tempo, non minimizza “le individuali ricerche d’identità” (ibidem). Joni e Laser riconosceranno una volta di più che Nic e Jules sono le loro vere figure genitoriali, che li hanno voluti, allevati ed educati; lo faranno, però, dopo aver attraversato una parte ignota e fondamentale delle loro origini, incarnata da Paul. Quest’ultimo, grazie ai ragazzi, esce dalla propria adolescenza prolungata e si scopre padre; ma capisce di non poterlo essere interamente per Joni e Laser, se non a prezzo di spezzare i legami che hanno già creato. Nic e Jules ritrovano, invece, l’energia per portare avanti la loro “dura maratona”, come Jules definisce il matrimonio. La parabola si conclude con la partenza di Joni per l’università: un’autonomia a lungo desiderata che le fa riscoprire anche l’affetto per le educatrici di una vita. L’ultima scena inquadra le mani di Nic e Jules che si riallacciano. In questa stretta si condensa il succo agrodolce della “sit-com altamente evoluta” (James Verniere sul Boston Herald), in cui nessuno ha ragione, ma tutti imparano qualcosa su se stessi.