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Homecoming è un trattino rosso e blu tra le parole “spider” e “man”

«Venticinqu’anni!… sono vecchio, sono / vecchio! Passò la giovinezza prima,/ il dono mi lasciò dell’abbandono! »

Così diceva il poeta, Guido Gozzano, nel suo Giovenil Errore, prima sezione dei Colloqui (1911). E in effetti ci si sente un po’ vecchi nel vedere a venticinque anni un film come Spider-Man: Homecoming. Si ha la sensazione di essere un po’ fuori luogo in una generazione di giovanissimi millenials il cui linguaggio non verbale e il lessico ibrido di emotività e tecnologia ci sfuggono amabilmente o stonano sonoramente con le nostre pretese di adulta, ma non per questo matura, seriosità. Spider-Man: Homecoming non è un certo un film adulto, caratterizzato da un ritmo veloce e a tratti spiazzante, una narrativa semplice e lineare e una spensieratezza costante. Poco adulto sì ma al tempo stesso molto maturo.

333-6La storia non si apre con una vicenda, ma con una riflessione meta-cinematografica che vuole essere una risposta di gran classe sia a Spielberg che a Iñárritu; una replica esposta, guarda caso, proprio da quel Birdman che è Micheal Keaton, il quale due anni prima aveva incarnato lo scontro inevitabile tra un certo tipo di cinema e un certo modo di fare cinema. Fatta questa premessa la storia si snoda in tutta la sua semplicità più appagante. Ma a differenza di quanto visto in Raimi o Webb gli anni scorsi, ovvero un “supereroe con super problemi” (ultra collaudata formula Marvel), qui non abbiamo a che fare con un supereroe, per quanto problematico, ma con un ragazzo che crede o vorrebbe essere un eroe (un Avenger nello specifico) ma non può esserlo perché appunto è solo un ragazzo. Dimenticate i grattacieli sconfinati e i mirabolanti scontri aerei. Questo Spider-Man corre così tanto nell’amichevole Queens da far sembrare Forrest Gump un corridore occasionale. È proprio la corsa il leitmotiv di tutta la storia. Si corre alle chiamate del mentore Tony Stark; si corre fuori da scuola, non appena le lezioni finiscono, per andare a volteggiare nei bassi cieli del downtown di New York. Si corre e di fretta in un percorso di crescita personale che vuole bruciare le tappe per arrivare ad avere tutto e subito; un aspetto quest’ultimo trattato egregiamente nel film, specialmente per quanto riguarda il rapporto tra giovani e tecnologia. Chi aveva remore, a cominciare dal sottoscritto, per l’eccesso di futurismo tecnologico in un personaggio di strada come Spider-Man, può stare tranquillo: tutto alla fine risulta coerentemente funzionale al percorso di formazione di Peter, a cominciare dalla tanto discussa Karen, l’intelligenza artificiale installata nel costume.

Peter-Save-the-Ferry-in-Spider-Man-HomecomingMa Homecoming è anche e soprattutto una storia sui giovani e sulla loro voglia di mettersi in gioco. In questo forse il film pecca leggermente di pacchiano ottimismo, eppure non mancano momenti di sincero e lucido realismo. La realtà scolastica di Peter è quanto di meglio si possa vedere in un film del genere. Non turbe adolescenziali e odiosi teen-drama ma veri e propri spaccati di vita scolastica e quotidiana, dove si parla di sesso, di verifiche imminenti, ci si relaziona con inseganti del tutto demotivati o fin troppo entusiasti, e si trova anche e soprattutto il tempo di riflettere sull’attualità. Sì perché Homecoming è forse il film dei Marvel Studios (e della Marvel in generale) più politico di tutti. Sia chiaro, non un banale manifesto di chissà quale posizione o movimento ma uno schietto ritratto della genesi dell’elettorato medio americano giovane e vecchio. Un merito, questo, della scrittura di Jonathan Goldstein e John Francis Daley. Sugli interpreti c’è poco da dire. Tutti da Laura Harrier (bella e convincente) a Jacob Batalon (spassoso e irriverente) trovano il giusto posto nella vicenda. Persino la tanto temuta Marisa “ToMay” svolge bene il proprio ruolo di tutrice affettuosa e apprensiva. E se Tom Holland incarna alla perfezione i nostri sogni di un giovane e autentico Peter Parker, Micheal Keaton è uno spettacolare incubo tanto in aria quanto a terra. Non voglio dire nulla sul sorprendente finale, ma sappiate che con ogni probabilità si tratta di quello più disneyano di tutti.

spider-man-homecoming-michael-keaton-hi-resC’è solo una nota finale da fare per tutti i cultori del personaggio, in particolare di quello su carta: Spider-Man: Homecoming è un film iconoclasta. Molta della mitologia classica di Spider-Man è qui spazzata via violentemente. L’universo del personaggio è sì familiare, non tanto per una corrispondenza contenutistica di luoghi o persone (credetemi il Flash Thompson di Tony Revolori è quello meno sorprendente sotto questo aspetto) ma per un’autenticità di persone, relazioni e situazioni molto raro in produzioni di questo tipo.

Forse il pregio più grande di Homecoming è l’equilibrio. Poteva essere facilmente un blockbuster estivo e invece il film di Jon Watts è un lavoro bilanciato, che alterna egregiamente umano e superumano, lo “spider” e il “man”. Certo non deve stupire sentir parlare di umanità in Spider-Man. Eppure io mi sono stupito, come non mi accadeva dal 2002, nel guardare per la settima volta Spidey sul grande schermo. Allora era lo stupore di un ragazzino verso un giovane uomo. Adesso ironicamente è il contrario. Questo perché il personaggio di Spider-Man può ancora godere, checché ne dicano Steven Spielberg o Emma Thompson, di una meritata giovinezza; mentre noi inevitabilmente invecchiamo.

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