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“Ho ucciso mia madre”: lo sfrontato debutto di Xavier Dolan

All’età di soli diciannove anni il regista canadese Xavier Dolan ha debuttato sul grande schermo e l’ha fatto senza davvero nessun timore reverenziale. Con il suo primo film, dal titolo shock J’ai tué ma mére (Ho ucciso mia madre), difatti, ha impressionato la giuria del Festival del Cinema di Cannes, portando a casa ben tre premi, tra cui il Prix Regards Jeune.

 

Il film, in parte autobiografico e scritto quando il regista aveva solo sedici anni, mette in scena la lotta per la propria indipendenza di Hubert, adolescente omosessuale interpretato da Dolan stesso, che vive un rapporto estremamente conflittuale con la madre, Chantale (Anne Dorval), dopo che questa si è separata dal padre del ragazzo.

In apparenza è la storia di un dramma familiare già visto e rivisitato da altri ma presentato invece da Dolan con freschezza e brillantezza.

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Interessanti sono le scene in bianco e nero, in cui il protagonista, filmandosi, vive delle esperienze di ricordo o immaginazione. Questa sorta di flusso di coscienza ci introduce direttamente nei pensieri di Hubert, senza che nessun agente esterno possa intervenire ad alterarne la percezione. Queste scene, girate in time-lapse, amplificano la sensazione di star ascoltando anche le parole di Dolan stesso e non solo quelle del  personaggio. È questa, probabilmente, la forza vincente della pellicola, cioè la visione diretta su un’adolescenza problematica che si mescola con l’impossibilità di scindere completamente la figura del creatore da quella della sua creatura.

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 Il punto nevralgico del film, però, è la tensione che unisce Chantale a Hubert  e viceversa. Entrambi sembrano chiusi nel proprio egoismo e Dolan non ci permette mai di stabilire con certezza chi dei due sia il responsabile dei frequenti litigi. Spesso madre e figlio si dimostrano affettuosi, tentando di essere comprensivi nei confronti dell’altro, ma poi finiscono per fallire nei loro buoni propositi, tornando a prendere scelte che generano tensioni. Hubert, alla ricerca della sua realizzazione in campo artistico, soffre irrimediabilmente la mancanza di una figura maschile e nasconde alla madre la propria omosessualità, mentre Chantale vorrebbe che il figlio si adeguasse alla sua vita di madre separata, fatta di amiche tediose, programmi radiofonici e passatempi frivoli.

Significative da questo punto di vista sono le scelte per le inquadrature durante i dialoghi, soprattutto a tavola. I primi piani degli interlocutori infatti sono fortemente decentrati e le inquadrature asimmetriche non fanno altro se non rimarcare il divario, il distacco, che vi è tra madre e figlio, che pure siedono l’una accanto all’altro.

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C’è da notare che talvolta la rabbia nei confronti dell’altro si manifesta in modo del tutto inaspettato e in situazioni e per cause banali. Ci si chiede pertanto se davvero Dolan abbia optato per una rappresentazione così estremizzata e drammatica del rapporto fra genitore e figlio, oppure questo non sia solo una piccola ridondanza attribuibile alla giovane età e all’inesperienza del regista. Qualche volta pare infatti che alcuni litigi siano sovrabbondanti, quasi immotivati, e si ha la sensazione che il film sarebbe stato in grado di comunicare perfettamente il suo messaggio anche senza di essi. Vero è anche, però, che questa cascata di rabbia e insulti non sfocia mai nel dramma più aperto. Proprio la mediocrità da cui nascono  i diverbi lascia presagire un sottilissimo gioco auto ironico del regista, che nel titolo suggerisce una trama, ma ne sviluppa una diversa nel corpo del film. Sembra altamente improbabile, almeno a parere di chi scrive, che Hubert, proprio per la sua stessa fisiologia di ragazzo sensibile, vulnerabile e riflessivo, possa davvero commettere un matricidio. In quest’ottica il titolo rivelerebbe la sua ironia e il finale, da alcuni considerato banalmente scontato, coronerebbe quello che invece è un percorso fatto di strappi e ricongiungimenti. Sulla riva del mare, infatti, Chantale abbraccia Hubert, le parole tacciono e gli urli e gli insulti lasciano il posto ad un controverso rapporto madre-figlio, la cui evoluzione può essere solo immaginata.

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Qui potete trovare la recensione dell’ultima fatica cinematografica di Dolan, ovvero È solo la fine del mondo (2016)

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