CulturaRiflessioni

Hannah Arendt sta morendo

Il problema vero non sono i quattro ragazzi che hanno fatto irruzione, ma un’immigrazione fuori controllo, voluta da qualcuno, organizzata e alimentata da una certa sinistra che fa favori ai poteri forti e cerca lo scontro sociale“.

Con questa dichiarazione sugli incresciosi fatti di cronaca recente di Como, Salvini è riuscito in un colpo solo in due imprese non facili: la prima quella di avermi fatto rivalutare l’ormai ex leader del Carroccio Umberto Bossi, la seconda di aver contribuito al continuo vilipendio alla memoria e al pensiero di una Maestra della Filosofia Occidentale. Parliamo di Hannah Arendt scomparsa il 4 dicembre di 42 anni fa ma che solo in questi ultimi anni ha cominciato a manifestare i sintomi di una morte lenta e dolorosa, uccisa da azioni (e inazioni) sempre più “banali”. Hannah Arendt nasce ad Hannover il 14 ottobre 1906 da una famiglia ebraica, ma è a Königsberg (oggi Kaliningrad) che cresce, e a noi filosofi piace pensare che non possa essere un caso (Königsberg infatti era la città natale di Kant, filosofo ammirato dalla stessa Arendt). Trasferitasi a Berlino prima e a Maburgo poi, dove studia filosofia e si innamora e stringe una relazione col suo maestro Martin Heidegger, la Arendt si vedrà costretta a emigrare dalla Germania per riparare in un primo momento in Francia e poi negli Stati Uniti dove rimarrà per il resto della vita. Ed è proprio la vita, quella umana o come dirà lei activa, il perno attorno al quale ruota e si articola il suo pensiero, prendendo le distanze dall’esistenzialismo heideggeriano e abbracciando una filosofia di stampo neo-kantiano e dall’impianto fortemente criticista.

Hannah-Arendt

Quella della Harendt, in Vita Activa (1958) è un’analisi profonda e accurata della vita sociale dell’uomo, intesa come insieme di attività, ora lavorative ora politiche, all’interno del quale il senso comune o buon senso, che è frutto della capacità di giudicare intuitivamente, in greco “phronesis”, gioca un ruolo fondamentale nel discernere il giusto dallo sbagliato. Se per la grande tradizione filosofica questa capacità di discernimento era prerogativa dei pensatori di professione, per la Arendt una simile responsabilità non poteva essere delegata alla sola classe degli intellettuali ma doveva diventare patrimonio di tutta la popolazione civile. Una posizione già espressa in maniera complementare in una delle sue prime grandi opere sistematiche, “Le origini del totalitarismo” del 1951. In essa la Arendt individua un punto comune a nazismo e stalinismo, ovvero l’alienazione sulla quale entrambe le dittature avevano strutturato il proprio consenso. Ma è indubbiamente con “La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme” (1963) che la Arendt raggiunge la fama internazionale. Nel suo saggio, che altro non doveva essere se non un resoconto del processo a Eichmann, l’autrice declina ed espone il suo stupore per la “normalità” ostentata di una persona come Eichmann ovvero il principale responsabile materiale delle deportazioni naziste nei campi di concentramento. Durante il processo la Arendt si convinse che il male non aveva il volto della mostruosità e della perversa eccezionalità bensì un volto banale, semplice, quasi amico. Ma non basta: quella della Arendt non era solo un’impressione bensì una condizione radicata nel profondo dello stesso Eichmann il quale, come riporta l’autrice nel capitolo ottavo, “dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principi dell’etica kantiana”. Eichmann quindi era molto di più di un gerarca nazista che aveva “eseguito ordini”, era la personificazione perfetta del buon cittadino responsabile che seguiva le leggi del suo paese. Fu questa epifania che convinse la Arendt che il male non era una presenza malefica ma l’assenza di un senso critico di responsabilità che aveva favorito l’ascesa del nazismo. In altre parole il nazismo ebbe successo in Germania, così come lo stalinismo in Russia, non tanto per le azioni malvagie di pochi, ma per la mancanza di opere giuste da parte di molti, in quel caso degli stessi tedeschi e degli stessi ebrei che non si erano ribellati in tempo al “conformismo sociale” (altro concetto molto caro alla Arendt) che dilagava all’epoca. Queste sue posizioni, a suo tempo incomprese, le causarono diverse accuse di ritrattazione del fenomeno nazista, in particolare da parte di molti studenti newyorkesi inebriati di un giustizialismo tipicamente americano, come illustra bene il film del 2012 di Margarethe von Trotta, “Hannah Arendt”.

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La cronaca recente, dai fatti di Como al suicidio in diretta del generale croato Slobodan Praljak, sono chiaramente dei segnali che la banalità e l’indifferenza, che viaggiano sempre in coppia, stanno prepotentemente tornando nei discorsi quotidiani favorendo il ritorno di ideologie totalitarie che pensavamo debellate dopo l’89. E invece ritornano, più convinte di prima, riempendo le bocche di parole come “difesa dei valori e della patria”, “invasione” e “razza”. Veicolato da discorsi semplici e appunto banali, lo spettro del “conformismo sociale” ritorna a infestare il cittadino medio il quale, alienandosi da una cultura che avverte come distante e “buonista”, si rifugia in cortocircuiti ideologici rivendicando una personalissima interpretazione dei fatti che spaccia come unica corretta. È uno spettro che ha già vinto negli Stati Uniti, sta vincendo in Europa e si sta declinando inquietantemente in ogni angolo del pianeta adattandosi a ogni cultura e popolo.

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Ma c’è un altro rischio, più sottile, meno sondabile e per questo più pericoloso. Il rischio proprio di recuperare la Arendt quasi fosse una reliquia da dissotterrare o peggio “attualizzare”. Sarò sempre grato al professor Luca Fonnesu per avermi insegnato che i grandi autori, di qualunque epoca essi siano, non sono attuali o attualizzabili bensì permanenti e i loro valori trascendono naturalmente il tempo e lo spazio. Hannah Arendt è un’autrice contemporanea eppure non abbastanza per un Occidente che dimentica troppo facilmente la sua storia e si chiude in una bolla che valorizza solo il momento corrente. Hannah Arendt non va recuperata e riproposta poiché come qualunque revival finirebbe presto o tardi per venire dimenticata nuovamente, rianimata solo in funzione di una tendenza intellettuale del momento. Hannah Arendt va letta e compresa sempre come parte di noi e della nostra cultura. È un’autrice ancora viva e presente, ma che sta lentamente morendo uccisa da una banalizzazione dilagante dei fenomeni attuali. La uccide Salvini, che pure si richiama spesso al buon senso dei cittadini appropriandosi in questo modo di concetti sani in maniera malsana (come Eichmann con Kant), la uccide la politica quando si rifiuta di contrastare gli estremismi di qualunque bandiera e schieramento bollandoli come derive di minoranza. Ma più di ogni altro lo fa il cittadino comune che non sentendosi parte della “Vita Activa” contribuisce all’imbarbarimento della moltitudine e alla perdizione dell’individuo. Hannah Arendt sta morendo e la cosa peggiore è che ognuno contribuisce un poco, semplicemente facendo niente. Un’inattività che intossica la mente, un vero e proprio veleno che riempie le nostre bocche allo stesso modo di come il cianuro ha riempito quella di Pralijak, con arroganza e sprezzo. È questo uno dei primi effetti della morte di Hannah Arendt e del senso critico in generale: credere che riempire la bocca di veleno non sia morire ma vivere.

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